2017
21 dicembre | Braun et al., Alta incidenza di ITS negli MSM | |
Gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (MSM: man who have sex with man) e con frequente cambiamento del partner sessuale, si contagiano spesso con infezioni a trasmissione sessuale (ITS). Tali infezioni sono spesse asintomatiche. In considerazione del rischio di contagio gli MSM che cambiamo frequentemente il partner, dovrebbero effettuare un test per ITS ogni tre mesi, soprattutto se esistono determinati fattori di rischio. Questa è la conclusione a cui è giunto lo studio della coorte zurighese della primo-infezione HIV, condotto presso l’Ospedale universitario di Zurigo. In questo studio sono state incluse anche altre persone che partecipano allo Studio svizzero della coorte HIV. “Consultare un medico quando c’è bruciore o prurito”. Questo è il messaggio di una campagna dell’Ufficio federale di sanità pubblica, che invita le persone con sospetto di una malattia a trasmissione sessuale di fare i test appropriati. I ricercatori dell’Ospedale universitario di Zurigo hanno constatato che sintomi come secrezione dall’ano o mal di gola sono dei forti indicatori di ITS. Tuttavia due terzi degli MSM con ITS non avevano alcun sintomo al momento degli esami di depistaggio. Nello studio pubblicato nella rivista specializzata “Clinical Infectious Diseases”, 200 MSM sieropositivi per HIV sono stati sottoposti a test di depistaggio di ITS. In questi uomini l’infezione HIV è stata diagnosticata precocemente e hanno ricevuto immediatamente una terapia antiretrovirale efficace in modo che non risultassero più contagiosi per ciò che attiene l’HIV. In un periodo di circa 18 mesi, un terzo degli MSM inclusi nello studio sono stati contagiati con una o più ITS, più spesso Chlamydia (50%), più raramente gonorrea (25%) o sifilide (19%) ed epatite C (4%). Le infezioni sono state diagnosticate più frequentemente a livello rettale ma anche in gola o, più raramente, nelle vie urinarie. Nel confronto con altri studi simili fatti nell’Europa dell’Est su MSM, il numero di infezioni diagnosticate è particolarmente elevato. Tuttavia 70% delle persone infette erano asintomatiche. Se si effettuano dei test di depistaggio unicamente in presenza di sintomi, i portatori di una ITS non sono individuati né trattati e rimangono quindi contagiosi. Spesso non è facile stabilire se una persona asintomatica deve essere sottoposta a esami. Per tale ragione gli autori dello studio hanno cercato dei fattori di rischio che potessero aiutare a prevedere la presenza di una malattia a trasmissione sessuale. Cambiare frequentemente il partner sessuale rappresenta un fattore di rischio, come lo è avere rapporti sessuali senza preservativo o consumare droghe (ecstasy, GHB o cocaina). Gli autori raccomandano di fare i test per le ITS ogni tre mesi negli MSM con comportamento a rischio anche se sono asintomatici. Dato che lo studio ha incluso unicamente MSM, i risultati non possono essere estesi alla popolazione degli eterosessuali. Tuttavia si raccomanda comunque di eseguire regolarmente dei test per depistare le ITS anche negli eterosessuali che cambiano frequentemente il partner. Un paziente MSM o eterosessuale che soffre di prurito o dolori a livello genitale dovrebbe essere testato per ITS poiché i sintomi citati sono spesso indicatori della presenza di tali malattie. |
16 novembre | Béguelin et al., Mortalità associata all’epatite delta nelle persone con una co-infezione HIV/epatite B | |
Le tre infezioni virali HIV, epatite C ed epatite B rappresentano una sfida a livello mondiale a causa dell’elevata prevalenza per cui ogni anno milioni di persone muoiono come conseguenza di queste malattie. Oggi sappiamo che il virus dell’epatite delta (o epatite D) è molto diffuso con circa 20 milioni di persone colpite dall’infezione. Alcuni ricercatori hanno constatato che nell’ambito dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) una gran parte dei partecipanti con una co-infezione HIV e da virus dell’epatite B sono portatori dell’epatite delta. Ecco maggiori dettagli su questa scoperta. Il virus dell’epatite delta può causare un’infezione solo in presenza di un’epatite B e non si manifesta mai come infezione isolata. Un’infezione da epatite delta nelle persone con epatite B cronica accelera l’evoluzione dell’epatite B e provoca più rapidamente un danno del fegato. Ricercatori dello Studio svizzero della coorte HIV hanno sottoposto 800 persone con co-infezione simultanea HIV e da virus dell’epatite B ad un test di depistaggio del virus delta. Tra le persone sottoposte al test, 119 (15%) avevano anche un’infezione da epatite delta e nella metà di queste persone il virus si replicava, ossia l’infezione era da considerare attiva. Un’epatite delta attiva era diagnosticata più frequentemente nelle persone che avevano anche un’infezione da virus dell’epatite C e che facevano uso di droghe per via endovenosa. Una co-infezione con il virus dell’epatite delta aveva un forte impatto sulla salute dei pazienti: con l’epatite delta la mortalità raddoppiava e la mortalità causata da malattie del fegato era sette volte più elevata. Inoltre le persone sieropositive affette da epatite delta avevano un rischio dieci volte più elevato di manifestare un cancro del fegato. Riassumendo, questo studio mostra come un’infezione simultanea da HIV, epatite B ed epatite delta sia associata ad una mortalità elevata. Inoltre il rischio di danni al fegato e di cancro del fegato era sensibilmente aumentato. Quindi è importante escludere un’infezione da virus dell’epatite delta nelle persone con epatite B cronica. Purtroppo non esiste ancora una cura efficace contro l’epatite delta. La ricerca su quest’infezione continuerà a rappresentare una sfida anche nel prossimo futuro. |
25 ottobre | Borges et al., L'inizio immediato di una terapia diminuisce il rischio di sviluppare un tumore maligno | |
Il rischio di essere colpiti da una malattia neoplastica è più elevato nelle persone con infezione HIV. L’apparizione di certi tumori maligni è chiaramente favorita dalla presenza simultanea dell’HIV e in questo caso si parla di tumori associati all’HIV. Alcuni linfomi, il cancro del collo uterino e dell’ano, come pure il sarcoma di Kaposi fanno parte dei tumori che possono essere in relazione all’HIV. Ricercatori dello studio Strategic Timing of Antiretroviral Treatment (START) hanno constatato che l’inizio precoce di una terapia antiretrovirale (ARV) con un tasso di linfociti T aiutanti (CD4) > 500/µl diminuiva del 64% il rischio di sviluppare una neoplasia rispetto ai pazienti che avevano iniziato una terapia ARV solo con linfociti CD4 scesi al di sotto di 350/µl. Gli autori hanno studiato se la riduzione di neoplasie era principalmente dovuta ad una diminuzione dei tumori maligni associati all’HIV o se intervenivano altri fattori per spiegare la diminuzione dei tumori. Hanno scoperto che l’inizio immediato di una terapia ARV riduce l’apparizione di due tumori particolari e hanno anche fatto ulteriori scoperte rilevanti. Ecco i dettagli. Nello studio START sono stati inclusi 4’685 pazienti sieropositivi di 35 Paesi. I partecipanti sono stati attribuiti in modo casuale al gruppo di pazienti con inizio immediato della terapia ARV (tasso dei linfociti CD4 > 500 /µl) o al gruppo con un inizio ritardato del trattamento ARV, ossia con CD4 < 350/µl. Lo studio è stato interrotto dopo soltanto tre anni perché era evidente che nelle persone con inizio immediato della terapia ARV (con un tasso di linfociti CD4 elevato) vi era una forte riduzione di malattie associate all’AIDS, ma anche di altre malattie (ad esempio cardiovascolari) non associate all’AIDS. L’inizio immediato di una terapia ARV diminuiva del 74% il rischio di essere colpiti da un tumore maligno associato all’HIV. In effetti nelle persone con inizio immediato della terapia ARV, sono stati osservati solo 14 casi di neoplasia, mentre nel gruppo con una terapia tardiva sono stati osservati ben 39 casi. I fattori di rischio per lo sviluppo di una neoplasia legata all’HIV erano un’età avanzata, sovrappeso, provenienza da una regione con minor risorse economiche, come pure una carica virale HIV alta e un tasso elevato di linfociti CD8 (non T aiutanti!) all’inizio dello studio. L’inizio immediato di una terapia ARV diminuiva soprattutto il rischio di un sarcoma di Kaposi e di linfomi, mentre l’effetto su altri tumori maligni era meno impressionante. Sorprendentemente un numero di linfociti CD4 basso non correlava con un rischio più elevato di neoplasie. Per contro un numero di cellule CD8 elevato era associato ad un rischio più alto di tumori maligni e ciò potrebbe correlare con uno stato infiammatorio cronico nelle persone sieropositive. Malgrado ciò, la carica virale elevata al momento dell’inclusione nello studio aveva solo un effetto molto ridotto sul rischio di sviluppare un tumore maligno. Lo studio START ha fornito informazioni importanti che sono attualmente prese in considerazione nel trattamento delle persone sieropositive. In effetti oggi si consiglia a tutte le persone sieropositive di iniziare rapidamente una terapia ARV, indipendentemente dal numero di linfociti CD4. L’inizio immediato di una terapia ARV nella fase precoce dell’infezione HIV contribuisce a diminuire fortemente il rischio di sviluppare differenti tumori maligni. L’effetto positivo di una terapia anti-HIV precoce sull’apparizione di neoplasie non si spiega solamente con una carica virale elevata o con un sistema immunitario indebolito. Altri fattori associati ad un trattamento precoce dell’infezione HIV, come la riduzione di uno stato infiammatorio o l’inibizione di altri virus (ad esempio virus della famiglia Herpes o virus del papilloma umano, HPV) potrebbero contribuire alla diminuzione del rischio di tumori maligni. |
27 settembre | Schäfer et al., Scarsa attività fisica nei partecipanti allo studio svizzero della coorte HIV | |
Fare sport fa bene alla salute è un detto noto a tutti. Presso le persone sieronegative è stato dimostrato che un’attività fisica regolare diminuisce la mortalità e ciò soprattutto grazie alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari. Ricercatori dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno studiato le differenze nell’attività fisica, sia in ambito professionale che nel tempo libero, nelle persone sieropositive e in quelle sieronegative. Le persone sieropositive sono risultate fisicamente meno attive rispetto a quello sieronegative. Inoltre i ricercatori hanno constatato una differenza tra uomini e donne, come pure un “Röstigraben” particolare. Ecco le spiegazioni. Uomini e donne che partecipano al SHCS rispondono ogni sei mesi a domande relative all’attività fisica, sia in ambito professionale che nel tempo libero. Per questo studio i ricercatori hanno analizzato le risposte di 10540 partecipanti tra dicembre 2009 e novembre 2014. I risultati sono stati comparati con quelli del sondaggio “Sports Switzerland” effettuato tra il 2009 ed il 2014 nella popolazione generale svizzera. Nel 2009 il 49% delle persone sieropositive affermava di non fare sport durante il tempo libero. Questa percentuale è leggermente diminuita a 44% nel 2014. Per contro, nel 2009 soltanto il 27% delle persone sieronegative indicavano di rinunciare ad attività sportive durante il tempo libero e questa percentuale è rimasta stabile al 26% nel 2014. Tra il 2009 e il 2014 nei partecipanti SHCS è pure stato riscontrato un aumento dell’attività professionale di tipo sedentario dal 23% al 26%. Analisi supplementari hanno mostrato che persone con una malattia opportunistica che definisce l’AIDS e un tasso di linfociti CD4-T aiutanti basso, erano meno attive a livello fisico rispetto alle persone con diagnosi HIV in uno stadio precoce e con un tasso di linfociti CD4-T aiutanti più elevato. Alcune similitudini in relazione al sesso sono state riscontrate in relazione al bisogno soggettivo di movimento confrontando persone sieropositive e sieronegative: in entrambi i gruppi gli uomini erano più attivi a livello fisico rispetto alle donne e a partire dai 25 anni di età l’attività fisica diminuiva costantemente. Inoltre le persone con un livello di educazione superiore risultavano più attive durante il tempo libero rispetto alle persone con un livello di formazione più modesto. E il “Röstigraben”? Durante il tempo libero le persone sieropositive della Svizzera tedesca risultano essere più attive a livello fisico rispetto a coloro che vivono in Svizzera romanda e in Ticino. Lo studio dimostra che occorre incoraggiare i pazienti sieropositivi a una maggiore attività fisica. Ciò potrebbe migliorare il loro stato di salute generale e in modo più specifico ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. |
10 agosto | Güler et al., La speranza di vita dei pazienti con infezione HIV | |
È importante sapere se attualmente i pazienti con infezione da HIV hanno la stessa speranza di vita rispetto ai pazienti che non hanno l’infezione. Questo aspetto interessa non solamente i pazienti, ma è anche un dato rilevante nella sorveglianza dell’epidemia HIV e nei programmi dell’Ufficio Federale di Sanità. In Svizzera la speranza di vita delle persone sieropositive si avvicina progressivamente a quella della popolazione generale sieronegativa. Occorre però precisare che questa affermazione riguarda soprattutto le persone sieropositive con un livello di educazione più elevato. Cerchiamo di comprendere le possibili ragioni e il potenziale per migliorare la situazione. Nello studio degli autori Güler et al. è stata analizzata la speranza di vita di 16'532 partecipanti allo studio svizzero della coorte HIV (SHCS) tra il 1988 e il 2013, comparandola con la speranza di vita di 927'538 persone della coorte nazionale svizzera (SNC). Nel periodo di osservazione 4’579 persone sieropositive sono decedute. Tra i pazienti inclusi nello studio nell’era in cui era disponibile al massimo una monoterapia per l’HIV (1988-1991) il decesso è sopraggiunto nel 65.1% dei casi. Questa proporzione è diminuita in modo consistente a 2.4% per le persone sieropositive che sono state incluse nell’era della triterapia anti-HIV (2006-2013). Dall’era della monoterapia a quella della triterapia la speranza di vita delle persone sieropositive è aumentata di 11.8 anni. È interessante rilevare che la speranza di vita delle persone sieropositive dipende dal livello di educazione: una persona sieropositiva di 20 anni sotto triterapia con un livello modesto di formazione ha una speranza di vita di 72.7 anni. Per contro la speranza di vita di una persona sieropositiva con un alto livello di formazione è di 80 anni. Differenze minori sono state constatate anche nella popolazione generale. La speranza di vita di una persona di 20 anni è aumentata di 0.7 anni tra il periodo 1988-1991 e 2006-2013. Durante gli anni 2006-2013 la speranza di vita era di 81.5 anni per le persone con un livello di formazione modesta e di 85.6 anni in coloro che hanno un livello di formazione superiore. I fattori associati ad un tasso di mortalità più elevata sono il sesso maschile, il tabagismo, il consumo di droga per via endovenosa ed un tasso dei linfociti T aiutanti basso. Riassumendo, lo studio mostra che la speranza di vita dei pazienti con infezione HIV è ancora inferiore a quella della popolazione generale. Le persone sieropositive con un alto livello di formazione hanno una speranza di vita simile a quella di persone nella popolazione generale con un modesto livello di formazione. L’inizio precoce di una terapia antiretrovirale dopo la diagnosi di infezione HIV e programmi per diminuire il consumo di tabacco possono contribuire ad avvicinare ulteriormente la speranza di vita delle persone sieropositive a quella della popolazione generale. |
5 luglio | Sabin et al., Abacavir e rischio di malattia cardiovascolare | |
Il medicamento anti-HIV abacavir è prescritto molto frequentemente alle persone sieropositive in combinazione con altri farmaci anti-HIV. I risultati di vari studi fanno supporre che l’assunzione di abacavir potrebbe aumentare il rischio di malattie cardiovascolari. In base ai dati disponibili attualmente, non è ancora evidente se si tratti effettivamente di un rischio più elevato o se il problema derivi dal fatto che in passato l’abacavir è stato prescritto più frequentemente a persone sieropositive che avevano già classici fattori di rischio cardiovascolari (per esempio tabagismo, ipertensione, diabete). Costoro hanno automaticamente un rischio aumentato di malattie cardiovascolari, ciò che potrebbe spiegare l’osservazione di un rischio aumentato sotto abacavir. Per chiarire questa incertezza, gli autori del presente studio hanno analizzato i dati di 50'000 persone sieropositive trattate con abacavir tra il 2008 ed il 2013. L’intervallo di tempo è stato scelto considerando che a partire dal 2008 si conosce una possibile relazione tra abacavir e rischio di malattia cardiovascolare. È lecito supporre che da allora l’abacavir sia stato prescritto meno frequentemente a delle persone sieropositive con un alto rischio di malattia cardiovascolare. Sarebbe quindi possibile che studi più recenti non confermino la relazione tra abacavir e malattie cardiovascolari. La nuova analisi mostra che il tasso di malattie cardiovascolari presso le persone sotto terapia con abacavir è di 0.47 casi per 100 anni-paziente mentre nelle persone sotto terapia senza abacavir l’incidenza è di 0.21 casi per 100 anni-paziente. Con altre parole, su 400 persone sieropositive si osservano nel corso di un anno 2 malattie cardiovascolari tra coloro che assumono abacavir e 1 malattia cardiovascolare tra coloro sotto terapia senza abacavir. Con l’ausilio di test statistici supplementari, si è potuto escludere con buona probabilità che questo tasso più elevato di malattie cardiovascolari nelle persone che assumono abacavir, possa essere dovuto ad altri fattori, ad esempio fattori di rischio classici già esistenti come età, sesso o un valore basso di linfociti CD4+. L’analisi finale ha mostrato che una persona sotto trattamento con abacavir è esposta ad un rischio di malattie cardiovascolari due volte più elevato in confronto alle persone sotto terapia senza abacavir. Riassumendo, questo studio mostra che probabilmente l’abacavir è associato ad un rischio più elevato di malattie cardiovascolari. Si dovrebbe quindi evitare di prescrivere abacavir alle persone sieropositive con un rischio moderato o elevato di complicazioni cardiovascolari. Commento del Dr. med. D. Braun e Prof. H. Günthard, SHCS |
31 maggio | Kovari et al., HCV e rischio di morire di una malattia indipendente dal fegato | |
L’infezione da virus dell’epatite C (HCV) nei sieropositivi è frequente e concerne circa il 30% di loro. L’infezione cronica da HCV è associata a numerose malattie indipendenti dal fegato come ad esempio il linfoma o malattie autoimmuni. Studi recenti mostrano che un’infezione cronica da HCV aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e diabete. Nel corso degli ultimi anni numerosi medicamenti anti-HCV altamente efficaci (cosiddetti direct-acting agents, DAA) sono stati autorizzati in Svizzera e permettono alla maggioranza dei pazienti di guarire completamente. Un gruppo di ricercatori guidati dalla Dr.ssa H. Kovari ha esaminato in questo studio il ruolo dell’infezione da HCV sui decessi dovuti a malattie indipendenti dal fegato valutando se la guarigione dall’epatite C contribuisca alla diminuzione di tali malattie e incida sulla mortalità. 2503 persone sieropositive con infezione da HCV sono state incluse nell’analisi e comparate a 2503 persone sieropositive senza infezione da HCV. Lo studio è durato oltre otto anni. Il 90% delle persone trattate per HCV hanno ricevuto dei medicamenti di vecchia generazione, più frequentemente interferone in combinazione con ribavirina e quindi non i nuovi DAA altamente efficaci. I risultati hanno mostrato che le persone con infezione da HCV hanno un rischio nettamente più elevato di soffrire di malattie del fegato, malattie renali o osteoporosi e hanno un tasso di mortalità più elevato in confronto alle persone senza infezione da HCV. Per contro gli autori non hanno evidenziato nelle persone con infezione da HCV un rischio più elevato di diabete, malattie cardiovascolari, cancro non associato all’AIDS e decessi per malattie indipendenti dal fegato. Le persone trattate per l’infezione da HCV che non avevano ottenuto una guarigione, presentavano un rischio più elevato di malattie del fegato e diabete, se comparate con persone che erano guarite grazie al trattamento anti-HCV. Inoltre le persone che non avevano ricevuto un trattamento per HCV avevano un rischio leggermente più elevato di malattie renali, malattie cardiovascolari e cancro non associato all’AIDS rispetto ai pazienti guariti dall’epatite C, benché questo rischio non era statisticamente significativo. Riassumendo lo studio dimostra in primo luogo che le persone con infezione da HCV hanno un rischio più elevato di essere affette da malattie del fegato e osteoporosi e ciò in modo indipendente se sia stato o meno effettuato un trattamento per HCV. In secondo luogo i pazienti senza trattamento anti-HCV sussiste un rischio più elevato di sviluppare un diabete e un rischio leggermente più elevato di manifestare malattie cardiovascolari. Un trattamento anti-HCV diminuisce il tasso di mortalità e di malattie del fegato. In futuro sarà importante analizzare quale influenza i medicamenti anti-HCV altamente efficaci avranno sulle malattie indipendenti dal fegato e sul tasso di mortalità. I risultati dello studio mostrano che le persone sieropositive per HIV con infezione da HCV approfittano di un trattamento anti-HCV in modo indipendente dalla gravità delle lesioni al fegato. Commento del Dr. med. D. Braun e Prof. Dr. med. H. Günthard, SHCS |
20 aprile | Trickey et al., Cause di decesso dei pazienti che hanno ricevuto almeno 10 anni di terapia antiretrovirale | |
Le persone sieropositive che hanno iniziato una terapia anti-HIV poco dopo l’introduzione del trattamento combinato nel 1996 hanno assunto ad oggi un trattamento per 20 anni. Il tasso di mortalità di queste persone riveste un grande interesse essendo state esposte per un lungo periodo a potenziali effetti collaterali dei medicamenti per l’HIV. Un gran numero di pazienti ha iniziato la terapia antiretrovirale con un tasso di linfociti aiutanti basso e oggi costoro hanno un’età in cui il rischio di sviluppare un cancro o una malattia cardiovascolare aumenta. Gli autori di 18 coorti HIV europee e degli Stati Uniti d’America hanno analizzato il tasso di mortalità e le cause di decesso dei pazienti con HIV sottoposti a terapia antiretrovirale per almeno 10 anni. 13'011 pazienti hanno cominciato una terapia antiretrovirale tra il 1996 e il 1999 e sono stati trattati per almeno 10 anni con medicamenti anti-HIV. Di costoro, 656 (5%) sono deceduti. I seguenti fattori correlavano con una probabilità più elevata di decesso: età, sesso maschile, consumo di droghe per via endovenosa, diagnosi di AIDS; tasso di linfociti T aiutanti basso o una carica virale misurabile nel sangue 10 anni dopo l’inizio della terapia antiretrovirale. Per contro un tasso di linfociti T aiutanti basso prima dell’inizio della terapia antiretrovirale non era associato ad una maggior probabilità di morire. Le cause di decesso più frequenti erano: cancro del fegato non associato all’HIV (25%), AIDS (19%), malattie cardiovascolari (12%) e altre malattie del fegato (10%). I pazienti più anziani avevano una probabilità maggiore di morire di una malattia cardiovascolare o di un cancro del fegato. Le persone sieropositive con una storia di consumo di droga per via endovenosa sono deceduti più spesso a causa di una malattia del fegato o di un’infezione non associata all’HIV (ad esempio epatite C). I pazienti con linfociti T aiutanti bassi 10 anni dopo l’inizio della terapia antiretrovirale sono morti più frequentemente di AIDS. Riassumendo, questo studio dimostra che il tasso di linfociti T aiutanti e la carica virale HIV di coloro che sopravvivono dopo almeno 10 anni di terapia antiretrovirale restano un fattore prognostico importante nella probabilità di sopravvivere. È interessante rilevare che le cause di decesso più frequenti identificate in questo studio sono malattie non associate all’AIDS, come ad esempio il cancro al fegato e le malattie cardiovascolari. Occorre quindi prestare particolare attenzioni a tali malattie nel gruppo di pazienti preso in considerazione per questo studio. Le persone sieropositive con consumo di droga per via endovenosa rappresentano un gruppo di pazienti con una mortalità particolarmente elevata, per cui occorre sviluppare dei programmi volti a ridurre il rispettivo tasso di mortalità. |
16 marzo | Marzel et al., Motivi principali di nuove infezioni HIV in Svizzera | |
Le persone trattate per l’HIV che assumono fedelmente farmaci antiretrovirali non trasmettono l’HIV ad altre persone. Durante i primi mesi dopo il contagio, il rischio di trasmettere l’HIV tramite rapporti sessuali è particolarmente elevato. Inoltre, molte persone con HIV non sanno di essere infette poiché non fanno il test HIV. La diagnosi precoce dell’infezione e l’inizio immediato di una terapia sono dunque di primaria importanza per ridurre il numero di nuove infezioni HIV in Svizzera. In considerazione di ciò è importante sapere quante infezioni sono state trasmesse da persone che si trovano in uno stadio precoce dell’infezione HIV e quale è il ruolo dell’interruzione della terapia antiretrovirale nei nuovi contagi. Marzel e colleghi hanno studiato il numero di nuovi casi d’infezione HIV diagnosticati in Svizzera per stabilire quanti contagi sono avvenuti nei 12 mesi precedenti il risultato positivo del test. In seguito hanno esaminato i dati genetici anonimizzati derivanti dai test di resistenza dell’HIV di 10'970 partecipanti allo Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) riuscendo a comporre un albero genealogico su base genetica. All’interno di questo albero genealogico gli autori hanno potuto identificare 378 coppie di potenziali trasmissioni, in cui con alta probabilità una delle persone ha trasmesso l’HIV all’altra. Basandosi su queste coppie di trasmissioni gli autori hanno calcolato che in Svizzera fino a 56% delle infezioni HIV derivano da persone il cui contagio è avvenuto nei 12 mesi precedenti. Una trasmissione dell’HIV durante la fase cronica dell’infezione è avvenuta più frequentemente se le persone sieropositive avevano iniziato tardi una terapia antiretrovirale e se la viremia delle persone non trattate era elevata. Inoltre 14% delle trasmissioni erano causate da pause o interruzioni durature della terapia antiretrovirale. Riassumendo, questo studio dimostra che la maggioranza delle infezioni HIV in Svizzera derivano da persone sieropositive che si trovano in una fase precoce dell’infezione o che hanno interrotto la terapia per l’HIV. Per poter combattere efficacemente l’epidemia HIV in Svizzera è quindi di primaria importanza diagnosticare l’infezione HIV subito dopo il contagio e iniziare immediatamente una terapia antiretrovirale. Occorre evitare nel modo più assoluto di interrompere la terapia per l’HIV e in ogni caso occorre discutere con il proprio medico prima di prendere una decisione in merito. |
16 febbraio | Scherrer et al., L’apparizione di resistenze dell’HIV contro i medicamenti antiretrovirali è praticamente scomparsa in Svizzera | |
È risaputo che l’assunzione di farmaci per l’HIV poco efficaci o l’assunzione irregolare dei farmaci favorisce l’insorgenza di resistenze. Le resistenze permettono al virus di moltiplicarsi malgrado l’assunzione dei farmaci e ciò sfocia in una progressione dell’infezione HIV. In questo studio, Scherrer e colleghi hanno analizzato su un periodo di 15 anni (1999-2013) l’apparizione di resistenze contro differenti farmaci per l’HIV in un collettivo di 11'084 partecipanti allo Studio Svizzero della Coorte HIV sotto terapia. Nel periodo considerato sono state messe in evidenza delle resistenze ai farmaci per l’HIV in un terzo dei pazienti trattati. La proporzione di pazienti con resistenze era più alta in coloro che avevano iniziato la terapia prima del 1999 (56% dei pazienti) e diminuiva fortemente nei pazienti che avevano cominciato la terapia tra il 1999 e il 2006 (19.7%), rispettivamente tra il 2007 e il 2013 (9.7%). La prevalenza di resistenze contro l’insieme delle tre classi più importanti di farmaci è diminuita da 9% a 4.4% e a partire dal 2006 il tasso è costantemente inferiore a 0.4%. La maggior parte di pazienti con resistenze ha iniziato la terapia per l’HIV prima del 1999 (59.8%). Ciò nonostante nel 2013 oltre il 94% di questi pazienti ha potuto essere trattato efficacemente (viremia non misurabile nel sangue) grazie ai farmaci moderni per l’HIV. Riassumendo lo studio mostra in maniera impressionante come lo sviluppo di resistenze ai farmaci per l’HIV sia diminuito in modo considerevole grazie all’introduzione di nuovi farmaci. Ciò è particolarmente significativo a partire dal 2007 con l’introduzione di inibitori della proteasi moderni e inibitori dell’integrasi. Una resistenza acquisita alle 3 classi di farmaci è oggi praticamente inesistente. |
12 gennaio | Rodger et al., Rischio di trasmissione dell’HIV con rapporti sessuali non protetti tra coppie con stato HIV discordante | |
Nel contesto dello studio PARTNER, gli autori Rodger e collaboratori hanno analizzato il rischio di trasmissione dell’HIV nel caso di rapporti sessuali anali o vaginali non protetti in coppie con stato HIV discordante (serodiscordanti) qualora il partner sieropositivo è sotto una terapia antiretrovirale (ARV) efficace, ossia con una viremia viremia < 200 copie/ml durante almeno sei mesi. Nello studio sono state incluse 1’166 coppie, delle quali 548 coppie eterosessuali e 340 omosessuali, ciò che ha permesso di ottenere l’equivalente 1’238 anni di osservazione. Nel periodo dello studio i partner hanno avuto in totale almeno 58'000 rapporti anali o vaginali non protetti, con penetrazione e senza preservativo. Durante un periodo di osservazione medio di 1.3 anni per coppia, 11 partner che in precedenza erano risultati seronegativi, hanno avuto un test positivo per l’HIV. Comparando la sequenza virale delle persone con una nuova infezione con quelle dei loro rispettivi partner (analisi filogenetica), non è stata riscontrata una grande somiglianza dei virus. Con altre parole non ci sono indizi che facciano supporre che queste persone abbiano contratto l’HIV dal rispettivo partner sieropositivo sotto trattamento ARV (nota di redazione: si suppone che le persone abbiano contratto l’infezione HIV all’esterno della coppia con un altro partner sieropositivo senza terapia ARV). In questo studio nessuna trasmissione HIV ha potuto essere diagnosticata nel caso di rapporti sessuali non protetti tra partner serodiscordanti a condizione che la viremia del partner sieropositivo sotto terapia era < 200 copie/ml. È interessante notare come il rischio di trasmettere l’HIV non era più elevato anche nel caso della presenza simultanea di una malattia a trasmissione sessuale (per esempio sifilide, gonorrea, clamidia). In conclusione, nelle coppie serodiscordanti con rapporti sessuali non protetti e un partner seropositivo trattato con terapia ARV efficace, durante un periodo di osservazione di 1.3 anni per coppia non è stata osservata alcuna trasmissione dell’HIV. Saranno necessari altri studi con una durata di osservazione più lunga per poter stimare il rischio in maniera ancora più precisa. Commento del Dr. med. Dominique Braun e Prof. Dr. med. Huldrych Günthard Approfittiamo di questa occasione per ringraziare calorosamente i partecipanti allo studio dello studio svizzero della coorte HIV che hanno anche partecipato allo studio PARTNER e che continuano a parteciparvi. |