2024
20 novembre | Thoueille et al., Concentrazioni residue di cabotegravir e rilpivirina a lunga durata d’azione ed efficacia nella vita reale | |
La modalità di trattamento dell’infezione HIV è migliorata notevolmente negli ultimi anni, in particolare con l’arrivo di farmaci ad azione prolungata come la combinazione cabotegravir e rilpivirina somministrati tramite iniezione intramuscolare ogni due mesi. Tra gli individui trattati c’è una variabilità significativa nell’assorbimento e distribuzione nel corpo dei suddetti farmaci. I ricercatori dello studio svizzero della Coorte HIV (SHCS) hanno valutato le concentrazioni di questi farmaci nel sangue delle persone che vivono con HIV (PVHIV) tra marzo 2022 e marzo 2023. Nel contesto di questo studio sono stati prelevati 725 campioni di sangue in 186 PVHIV. I risultati hanno mostrato una grande variabilità interindividuale nelle concentrazioni di cabotegravir e rilpivirina. Alcuni individui presentavano concentrazioni ripetutamente basse nei controlli del sangue. Le concentrazioni della rilpivirina erano conformi ai risultati dello studio di omologazione del farmaco, mentre nel caso del cabotegravir erano più basse. Le analisi statistiche hanno anche mostrato valori più bassi delle concentrazioni di cabotegravir negli uomini rispetto alle donne. Nella popolazione studiata, 172 PVHIV (92%) hanno mantenuto una viremia non detettabile nel plasma, mentre in tre individui c’è stato un fallimento virologico (1.6%), in due casi associato a tassi subottimali dei farmaci nel sangue. Riassumendo, le concentrazioni di cabotegravir sono risultate sensibilmente più basse rispetto a quanto riportato in studi precedenti. Malgrado ciò, queste concentrazioni sembrano sufficienti per garantire una soppressione virologica duratura presso quasi tutte le PVHIV. Questi risultati rassicuranti rimettono in questione i valori soglia piuttosto conservativi che sono stati adottati fino ad ora per valutare l’efficacia dei farmaci, ciò che potrebbe causare inutili preoccupazioni. Lo studio ha mostrato che in alcune PVHIV le concentrazioni dei medicamenti erano regolarmente basse per motivi che restano da chiarire. |
17 ottobre | Griessbach et al., Risposta immunitaria dopo la terza vaccinazione con il vaccino Moderna o BioNTech di Pfizer | |
Lo studio COVERALL (COronaVaccinE tRiAL pLatform) si è svolto nel contesto dello Swiss HIV Cohort Study (SHCS) e dello Swiss Transplant Cohort Study (STCS). Nel primo studio COVERALL, il vaccino Moderna mRNA-1273 è stato confrontato con il vaccino BNT162b2 di Pfizer-BioNTech per valutare la risposta anticorpale dopo la vaccinazione primaria con due dosi di vaccino in persone con diverse forme di immunosoppressione. Il vaccino Moderna mRNA-1273 è risultato non inferiore al vaccino Pfizer BioNTech BNT162b. I pazienti che vivono con HIV hanno ottenuto una buona risposta immunitaria con un tasso sufficiente di anticorpi dopo il vaccino. Per contro coloro che hanno ricevuto un trapianto di organo hanno presentato una risposta anticorpale insufficiente. Sulla base di questi risultati, l'Ufficio federale della sanità pubblica ha raccomandato una terza vaccinazione per i pazienti trapiantati nell'inverno 2021/2022, al fine di migliorare l'immunizzazione di base e la protezione a lungo termine in previsione dei cambiamenti genetici del Sars-CoV-2 con comparsa di nuove varianti. In questo nuovo studio, COVERALL-2, tutti i partecipanti al primo studio COVERALL sono stati invitati a misurare la risposta anticorpale dopo la terza vaccinazione con Moderna mRNA-1273 o Pfizer-BioNTech BNT162b2. Lo studio ha incluso partecipanti del SHCS e del STCS che dovevano ricevere una terza dose del vaccino Moderna mRNA-1273 o Pfizer-BioNTech BNT162b2, in conformità alle raccomandazioni svizzere. Sono stati raccolti campioni di sangue dai partecipanti prima della terza vaccinazione e otto settimane dopo. Lo studio ha mostrato che, dopo la terza vaccinazione, il vaccino Moderna mRNA-1273 ha avuto una risposta anticorpale non inferiore a quella del vaccino Pfizer-BioNTech BNT162b2 (95,3% verso 98,1%). Questo risultato è indipendente dal grado di immunosoppressione dei partecipanti. Malgrado ciò, alcuni partecipanti che hanno ricevuto un trapianto di organo avevano una risposta anticorpale insufficiente anche dopo la terza vaccinazione. Di conseguenza le persone che soffrono di un’immunosoppressione più severa appartengono alla popolazione di persone più a rischio di complicazioni del Covid-19 malgrado ripetute vaccinazioni. Le persone che vivono con HIV presentano nell’insieme una buona risposta anticorpale. Questo studio contribuisce a una migliore comprensione della risposta immunitaria ai vaccini nelle persone con diversi gradi di immunosoppressione. Altre strategie, ad esempio nuovi vaccini o anticorpi monoclonali contro il Sars-Cov2, potrebbero fare la differenza nelle persone che non rispondono ai vaccini convenzionali. |
14 agosto | Alvarez et al., Fattori determinanti per la non soppressione virologica dell'HIV | |
Attualmente, per fortuna, solo poche persone che vivono con l’HIV sotto terapia antiretrovirale (ART) hanno un fallimento terapeutico e spesso non se ne comprendono facilmente i motivi. In passato una viremia elevata e un tasso di linfociti CD4+ basso all’inizio del trattamento erano stati identificati come fattori associati a un aumento del rischio di fallimento terapeutico. Con l’arrivo degli inibitori dell’integrasi, in particolare del dolutegravir, questa relazione non era più stata riscontrata nei primi studi clinici. Alvarez e colleghi, nello studio collaborativo internazionale RESPOND, hanno studiato i fattori di rischio di fallimento terapeutico in 4'310 persone che vivono con l’HIV (PVHIV) e che hanno iniziato una prima terapia antiretrovirale. Lo studio svizzero della Coorte HIV (SHCS) è anche parte del consorzio RESPOND. Le persone incluse nello studio hanno cominciato una ART comprendente 3 sostanze tra il 2014 e il 2020. Il 72% ha iniziato un trattamento comprendente un inibitore dell’integrasi. Dopo 48 e 96 settimane di trattamento il 91%, rispettivamente il 93.3%, presentava una viremia non misurabile. Una viremia >100'000 copie/ml e linfociti CD4+ <200/μl nel sangue prima dell’inizio del trattamento erano associati a valori misurabili della viremia dopo un anno e dopo due anni di trattamento. Una viremia elevata e un tasso basso dei linfociti CD4+ era anche associato con una viremia misurabile in modo intermittente (cosiddetto blip), con viremie persistentemente misurabili a basso livello (low level viremia), con una viremia residua (virus misurabile a <50 copie/ml) e con un aumento dei fallimenti terapeutici. Riassumendo, questo studio ha mostrato che una carica virale elevata e un numero basso di linfociti CD4+ prima dell’inizio del trattamento rimangono dei fattori di rischio di fallimento terapeutico, anche nell’epoca dei moderni e potenti inibitori dell’integrasi. I risultati dello studio di Alvarez et al. confermano uno studio di Pyngottu et al. realizzato nel contesto della SHCS (press release del 26.01.2023). Occorre quindi rimanere vigili sul rischio di fallimento terapeutico nelle persone che vivono con HIV e presentano una viremia elevata e linfociti CD4+ bassi all’inizio della terapia antiretrovirale, ad esempio controllando la viremia ogni tre mesi. Parallelamente in caso di ulteriore semplificazione del trattamento con introduzione di una biterapia, occorre particolare prudenza ed è raccomandato di fare controlli regolari della viremia. |
6 giugno | Bannister et al., Cambiamento dell’indice di massa corporea e altri aspetti clinici dopo l’inizio di una moderna terapia antiretrovirale | |
L’aumento ponderale è più frequente nelle persone che vivono con HIV (PVHIV) nell’era delle terapie antiretrovirali moderne. Probabilmente ciò è legato a vari fattori, come la modifica delle abitudini di vita, i cambiamenti demografici e l’aumento della speranza di vita. Potrebbe anche sussistere un effetto legato all’utilizzo della nuova generazione di farmaci antiretrovirali. Studi precedenti hanno mostrato un’associazione tra aumento dell’indice di massa corporea (IMC) e l’aumento del rischio di diabete mellito e di malattie cardiovascolari nella popolazione generale e nelle PVHIV. Inoltre l’obesità potrebbe anche aumentare il rischio di tumori maligni e la mortalità generale. Lo scopo di questo studio era di analizzare il cambiamento degli IMC e il loro impatto sulla salute nell’era della terapia antiretrovirale moderna. Gli autori hanno utilizzato i dati medici delle PVHIV che partecipano alla Coorte EuroSIDA, una collaborazione di vari studi che comprende oltre 23'000 PVHIV > 18 anni e seguite in 118 ospedali in 39 paesi dell’Europa e Argentina. Gli autori hanno incluso le PVHIV che hanno iniziato una nuova terapia antiretrovirale, composta da farmaci mai utilizzati in precedenza, tra l’01.01.2010 e il 31.12.2019. Gli IMC sono stati definiti secondo i criteri dell’OMS: peso insufficiente (< 18,5 kg/mq), peso normale (tra 18,5 e 25 kg/mq), sovrappeso (25-30 kg/mq) e obesità (30 kg/mq o più). Lo studio ha considerato l’apparizione di vari problemi di salute (malattie cardiovascolari, tumori, diabete mellito) e la mortalità generale. All’inizio dello studio, 8% delle PVHIV non aveva mai assunto antiretrovirali, 5% soffriva di peso insufficiente, 60% aveva un peso normale, 28% era in sovrappeso e 8% era obesa. Nel periodo di osservazione (mediana di 4,4 anni) la proporzione di partecipanti con un sovrappeso è aumentata dell’8%, quella delle persone obese del 5%. 100 eventi cardiovascolari, 149 cancri, 144 diagnosi di diabete mellito e 257 decessi sono sopravvenuti nel periodo dello studio. In paragone a un IMC stabile, l’aumento > 1 kg/mq era associato a un rischio aumentato di diabete mellito, mentre la diminuzione > 1 kg/mq era associata a un aumento del rischio di morte per una causa qualunque. Gli autori non hanno osservato una relazione tra cambiamento dell’IMC e apparizione di una malattia cardiovascolare o di un cancro. Gli autori sottolineano che è necessaria l’osservazione di un numero maggiore di PVHIV per un periodo prolungato per poter studiare l’effetto dei singoli farmaci antiretrovirali sul peso. Lo studio mostra che l’aumento dell’IMC è associato a un tasso più elevato di diabete mellito, ciò che è coerente con studi precedenti. Una diminuzione dell’IMC è associato a un aumento della mortalità. Ciò è spiegabile con il fatto che malattie gravi sono associate a perdita di peso ed eventualmente con differenze nell’applicare misure preventive a dipendenza dell’IMC. Non è stata ritrovata nessuna differenza significativa tra cambiamento dell’IMC e malattie cardiovascolari benché le analisi abbiano rivelato qualche segnale di un tasso potenzialmente più elevato in caso di diminuzione dell’IMC. |
11 aprile | Zeeb et al., HIV e tubercolosi in Svizzera | |
I ricercatori dello studio svizzero della Coorte HIV (SHCS) hanno condotto uno studio approfondito per esaminare l’incidenza della tubercolosi attiva (TB) e la sua relazione con la soppressione dell’HIV nelle persone che vivono con HIV (PVHIV). Inoltre lo studio ha analizzato la gestione del depistaggio e del trattamento dell’infezione latente della tubercolosi (ILTB) per la prevenzione della tubercolosi attiva. Una ILTB è caratterizzata dall’assenza di attività della malattia, poiché il sistema immunitario è in grado di controllare l’infezione tubercolare senza che la malattia si manifesti. Dopo l’infezione circa il 90% delle persone che hanno contratto la TB manifestano una ILTB e solamente il 5% una tubercolosi attiva. La tubercolosi (attiva) è stata definita come presenza di Mycobacterium tuberculosis in un campione clinico (ad esempio espettorato, biopsia di un linfonodo), accompagnata da sintomi e segni di malattia. I nuovi casi di tubercolosi sono stati definiti come una diagnosi di tubercolosi dopo sei mesi dalla diagnosi di HIV o dall’inclusione nella SHCS. La ILTB è stata definita come un test del sangue per il depistaggio della tubercolosi positivo oppure un test cutaneo con la tubercolina positivo, ma senza segni di tubercolosi attiva. Tra i partecipanti della SHCS l’incidenza della tubercolosi ha raggiungo un picco nel 1989 con 90.8 per 1’000 persone-anno ed è poi scesa massicciamente a 0.1 caso per 1’000 persone-anno nel 2021. Questa diminuzione si spiega in gran parte con l’aumento del numero di cellule CD4 e soppressione del virus HIV sotto terapia antiretrovirale. In parallelo l’incidenza della ILTB è diminuita passando da un picco del 15% nel 2001 al 5% nel 2021. 44% delle 1'233 PVHIV con una ILTB hanno ricevuto un trattamento preventivo con un antibiotico contro la tubercolosi 9 persone che avevano ricevuto un trattamento preventivo hanno sviluppato una tubercolosi, in paragone a 20 persone che non erano state trattate. Ciò corrisponde a una riduzione assoluta del rischio di sviluppare una tubercolosi attiva dopo trattamento pari allo 0.9%. Occorre trattare preventivamente 118 PVHIV con ILTB per evitare un caso di tubercolosi attiva. 60% delle 277 PV HIV che hanno manifestato una tubercolosi attiva non erano state testate alla ricerca di una ILTB e ciò malgrado le raccomandazioni esistenti. Nel 74% delle persone testate per una ILTB il risultato era falsamente negativo prima che la tubercolosi attiva fosse poi diagnosticata. Riassumendo lo studio mostra che un trattamento efficace per HIV gioca un ruolo decisivo nella diminuzione di casi di tubercolosi nelle PVHIV in Svizzera. All’incirca 50% delle persone con un test per ILTB positivo e a cui è stato prescritto un trattamento preventivo, necessita un miglioramento della presa in carico, sia da parte del medico che del paziente stesso. Infine, il fatto che oltre il 70% delle persone che hanno sviluppato una tubercolosi attiva avessero in precedenza un test ILTB falsamente negativo, sottolinea la necessità di sviluppare test diagnostici migliori per la valutazione del rischio di tubercolosi nelle PVHIV. Quest’ultimo punto è l’obiettivo di ricerca di un nuovo progetto nell’ambito della SHCS. | ||
3 aprile | vaccinazione Covid-19 nelle persone affette da HIV o con un trapianto d'organo | |
Il video seguente riassume i primi risultati della ricerca. Link video in francese in inglese |
21 febbraio | Surial et al., Effetto degli inibitori dell’integrasi sugli eventi cardiovascolari | |
Gli inibitori dell’integrasi giocano un ruolo importante nella moderna terapia antiretrovirale per la buona tolleranza e grande efficacia. Negli ultimi anni sono però stati identificati possibili effetti avversi di questa classe di farmaci, in particolare l’aumento ponderale e il diabete mellito. Una collaborazione internazionale di varie coorti, denominata RESPOND, ha anche suggerito la possibilità di un rischio aumentato di eventi cardiovascolari (infarto miocardico e ictus cerebrale) nei pazienti che assumono un inibitore dell’integrasi. Apparentemente il rischio aumentato di questi eventi vascolari era identificabile solo nei primi due anni di trattamento e non dopo molti anni di terapia. Occorre sottolineare che, come può accadere negli studi osservazionali, questo segnale inaspettato associato agli inibitori dell’integrasi potrebbe non essere reale, ma solo conseguenza di problemi metodologici dello studio. Per meglio comprendere questo segnale di sicurezza, la medesima domanda è stata esaminata nel contesto dello studio svizzero della coorte HIV (SHCS). Le ricercatrici e i ricercatori si sono soprattutto concentrati sull’applicazione di una robusta metodologia statistica. Sono state esaminate 5'362 persone che vivono con l’HIV e che non hanno ricevuto nessun trattamento antiretrovirale prima dell’inclusione nella SHCS. Questo studio ha permesso di comparare il rischio di eventi cardiovascolari in 1'837 persone che hanno iniziato una terapia antiretrovirale contenente un inibitore dell’integrasi con 3'525 persone che hanno iniziato una terapia antiretrovirale differente. Durante un periodo di osservazione mediamente di 5 anni sono stati rilevati 116 eventi cardiovascolari: 37 infarti miocardici, 36 ictus cerebrali e 43 interventi su vasi arteriosi. Il rischio di avere uno di questi eventi non era differente tra i partecipanti che hanno ricevuto un inibitore dell’integrasi nel confronto con le persone trattate con altri farmaci antiretrovirali. Questi risultati sono molto rassicuranti, dato che gli inibitori dell’integrasi sono oramai diventati in tutto il mondo uno standard terapeutico per l’infezione HIV. |