2021
8 dicembre | Hovaguimian et al., Rischio a lungo termine di infezione HIV nelle persone che hanno ricevuto una PPE all’HIV | |
La profilassi post-esposizione (PEP) è caratterizzata dall’assunzione di tre medicamenti antiretrovirali per evitare la trasmissione dell’HIV dopo un’esposizione, più frequentemente dopo un rapporto sessuale non protetto. Benché la PEP sia una misura ben documentata per prevenire l’infezione HIV, le conoscenze sul rischio a lungo termine di un’infezione HIV nelle persone che hanno assunto una PEP restano incomplete. In questo studio retrospettivo con collegamento di banche dati abbiamo esaminato l’incidenza dell’infezione HIV in 975 persone che si erano presentate ad una consultazione presso l’Ospedale universitario di Zurigo tra il 2007 e il 2013 per discutere l’assunzione di una PEP. Utilizzando una tecnica statistica rispettosa della protezione dei dati, le informazioni dei 975 pazienti sono state collegate con la banca dati dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) e con quella della Coorte della primoinfezione HIV di Zurigo (ZPHI). Durante il periodo citato la profilassi pre-esposizione all’HIV non era ancora disponibile in Svizzera. La combinazione di più banche dati di studi osservazionali, ha permesso di ottenere delle informazioni di decorso eccezionalmente lunghe con possibilità di determinare il rischio a lungo termine di un’infezione HIV. Con questo metodo è stato possibile identificare 22 casi di infezione HIV dei quali all’incirca la metà è stata diagnosticata oltre quattro anni dopo la consultazione per una profilassi post-esposizione. Benché gli uomini che hanno rapporti con altri uomini (MSM) rappresentino solo il 36% delle persone che hanno richiesto una consultazione per una PEP, le 22 infezioni da HIV sono state diagnosticate in questo gruppo di persone. Questo risultato è un’ulteriore dimostrazione dell’importanza di proporre rapidamente una profilassi pre-esposizione (PrEP) negli MSM nella situazione in cui, a causa di un’esposizione all’HIV, sono stati sottoposti a una PEP. La prescrizione di una PEP può quindi essere considerato un indicatore di rischio accresciuto di acquisire un’infezione HIV nei mesi e anni seguenti. |
10 novembre | Glass et al., Infezione HIV asintomatica e fallimento terapeutico | |
Negli ultimi anni si consiglia alle persone con infezione HIV di cominciare una terapia il più presto possibile dopo la diagnosi. Questa strategia è definita come “test and treat” ossia “fare il test e trattare”. La domanda che ci si pone attualmente è la seguente: le persone con test HIV positivo senza sintomi d’infezione (asintomatiche) hanno una risposta altrettanto buona alla terapia antiretrovirale come coloro che soffrono di complicazioni legate all’HIV al momento in cui iniziano una terapia? È ipotizzabile che le persone asintomatiche siano meno disposte ad iniziare una cura non risentendo ancora degli effetti nefasti dell’HIV sulla loro salute. Ciò potrebbe condurre a un’assunzione irregolare dei farmaci: questo fenomeno viene definito mancanza di aderenza al trattamento. Una scarsa aderenza al trattamento può condurre a un fallimento della terapia e spesso anche allo sviluppo di una resistenza del virus ai farmaci antiretrovirali. Nello studio condotto nell’ambito dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) l’aderenza terapeutica, il successo del trattamento e lo sviluppo di resistenze nelle persone con infezione HIV senza sintomi di malattia all’inizio del trattamento, sono stati comparati con i medesimi parametri nelle persone che, all’inizio della terapia antiretrovirale, presentavano sintomi di malattia. Il periodo d’inizio della terapia dei pazienti inclusi in questo studio si situa tra il 2003 e il 2018. Lo studio non ha mostrato nessun indizio che l’inizio del trattamento nella fase asintomatica dell’infezione HIV era associato a una minor aderenza al trattamento o a un rischio più elevato di fallimento terapeutico. A partire dal 2010 il rischio di fallimento terapeutico era addirittura più basso nelle persone sotto trattamento senza segni di malattia. Anche lo sviluppo di resistenze è stato osservato più raramente nelle persone che erano asintomatiche all’inizio della terapia antiretrovirale. Riassumendo, nell’ambito del SHCS offrire precocemente la terapia per l’infezione HIV si conferma la scelta migliore. In Svizzera le persone con infezione HIV che ricevono una terapia antiretrovirale sono disposte a seguire correttamente il trattamento indipendentemente dallo stadio dell’infezione HIV. |
21 ottobre | Abela et al., Resistenza ai farmaci antiretrovirali nei pazienti con condizioni sociali difficili nella SHCS | |
Dall’introduzione negli anni 90 della terapia antiretrovirale combinata (cART), il tasso di resistenze acquisite ai medicamenti contro l’HIV è diminuito in modo radicale. Malgrado ciò l’esperienza quotidiana mostra che ci sono ancora persone che vivono con l’HIV e che rischiano di sviluppare una resistenza ai farmaci malgrado l’accesso alle potenti terapie combinate e alle cure mediche. Questo studio ha cercato di identificare i fattori che aumentano il rischio di resistenza ai farmaci. Grazie a queste conoscenze dovrebbe essere possibile prevenire il fallimento terapeutico associato alla resistenza ai farmaci e alle sue complicazioni (per esempio necessità di prescrivere un numero più elevato di farmaci per controllare l’infezione HIV, controlli medici più frequenti, riduzione della qualità di vita) e in tal modo migliorare la presa in carico dei pazienti. Lo Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) è molto rappresentativo dell’epidemia HIV in Svizzera, poiché comprende oltre il 75% dei pazienti trattati con una terapia antiretrovirale. Sono stati studiati i pazienti che hanno cominciato la loro prima cura cART nella SHCS a partire dal 1996 e che hanno sviluppato una resistenza ai farmaci nel corso del trattamento. L’insieme di questi casi è stato paragonato a un gruppo di controllo appropriato nel quale non erano state osservate resistenze ai farmaci. Nello studio sono stati inclusi 115 pazienti con almeno una resistenza ai farmaci e 115 nel gruppo controllo. Per raccogliere informazioni più dettagliate sui parametri supplementari non raccolti sistematicamente nella SHCS, è stata fatta un’analisi sistematica delle cartelle mediche dei pazienti inclusi nello studio. I risultati dello studio hanno dimostrato che dopo il 1996 si sono verificati solo pochissimi casi di resistenza nella SHCS. Tra i casi osservati, la disoccupazione, la co-medicazione con farmaci per altre malattie infettive e i disturbi psichici erano collegati in modo stretto alla resistenza ai farmaci e sono stati identificati come importanti fattori di rischio nell’insorgenza di resistenze. Benché gli effetti collaterali dei trattamenti antiretrovirali sono diventati molto rari con le nuove terapie molto efficaci, questa analisi mostra che esiste un rischio aumentato di resistenza ai farmaci in persone con una situazione sociale difficile o che soffrono di problemi di salute mentale. Individuando precocemente questi problemi e offrendo un supporto appropriato, è possibile prevenire la resistenza ai farmaci antiretrovirali e il fallimento terapeutico che ne risulta. |
29 settembre | Greenberg et al., Terapia con combinazioni di due farmaci paragonate a combinazioni di tre farmaci in persone che vivono con HIV trattate con terapia antiretrovirale | |
Il trattamento antiretrovirale (ART) standard è composto in generale da tre farmaci e conduce alla soppressione duratura della viremia HIV. Considerando l’eccellente attività e l’elevata barriera contro lo sviluppo di resistenze delle nuove molecole antiretrovirali, allo scopo di evitare la tossicità a lungo termine di certi farmaci, è stata studiata in vari studi clinici randomizzati l’efficacia di biterapie. Nelle biterapie, al posto di tre medicamenti, si associano solo due farmaci. Le combinazioni rilpivirina/dolutegravir e lamivudina (o emtricitabina)/dolutegravir hanno mostrato negli studi clinici randomizzati una grande efficacia nel sopprimere la viremia in modo duraturo. Malgrado ciò fino ad ora solo pochi studi di coorte (osservazionali) hanno confermato questi risultati. Nel presente studio i ricercatori della collaborazione RESPOND, la più grande collaborazione di coorti HIV in Europa, hanno valutato la frequenza di eventi clinici in 10'000 persone che vivono con HIV sotto terapia antiretrovirale. Lo scopo principale dello studio era paragonare mortalità e incidenza di complicazioni maggiori (malattie opportunistiche, cancro, malattie cardiovascolari, renali o epatiche) nelle persone messe sotto biterapia confrontate con le persone trattate con triterapia. Durante il periodo di osservazione in 1'088 partecipanti (11% della popolazione dello studio) la triterapia è stata sostituita con una biterapia. Sono stati registrati 619 eventi clinici maggiori tra i quali i più frequenti erano il decesso e il cancro non associato all’AIDS. La frequenza delle complicazioni maggiori era simile nei due gruppi di trattamento dopo correzione di altri fattori che potevano influenzare i risultati. Questo studio conferma i buoni risultati ottenuti negli studi clinici randomizzati e contribuisce all’evidenza scientifica a favore di un trattamento con biterapia della nuova generazione nelle persone che sono stabili sotto il trattamento in corso e che non hanno una controindicazione alla riduzione del numero di farmaci. | ||
8 settembre | Livio et al., Le donne sono a rischio più elevato di ricevere una polimedicazione e anche terapie inappropriate | |
La speranza di vita delle persone con infezione da HIV è aumentata sensibilmente grazie alle terapie antiretrovirali. Di conseguenza il numero di persone anziane che vivono con HIV continua ad aumentare. La loro presa in carico è più complessa a causa delle co-morbilità legate all’età, ciò che aumenta il rischio di una polimedicazione (≥ 5 medicamenti) e di conseguenza il rischio di interazioni medicamentose. Inoltre, i cambiamenti fisiologici in relazione all’età, possono causare un cambiamento nell’eliminazione o nell’effetto di certi medicamenti, ciò che può renderne l’uso negli anziani inappropriato. Questo studio ha valutato la prevalenza, tipo e fattori di rischio per problemi di prescrizione medicamentosa nelle persone ≥ 75 anni nello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS). Lo studio osservazionale ha incluso 175 partecipanti nella maggior parte uomini (71%) con età media di 78 anni. I partecipanti avevano in media 7 co-morbilità di cui, principalmente, ipertensione arteriosa (60% dei partecipanti), insufficienza renale (56%), iperlipidemia (44%), disturbi cognitivi (39%) e perdita della massa ossea (30%). I problemi di prescrizione dei medicamenti sono stati identificati in 67% dei partecipanti e concernevano soprattutto i trattamenti non HIV. I problemi includevano degli errori di posologia (26%), prescrizione senza indicazione clinica (21%), omissione di prescrizioni (17%), prescrizione di farmaci inappropriati per le persone anziane (18%) e interazioni medicamentose potenzialmente pericolose (17%). I fattori di rischio per problemi di prescrizione dei medicamenti sono la polimedicazione, l’insufficienza renale, il trattamento con medicamenti psicotropi e il sesso femminile. Quest’ultimo fattore di rischio si spiega con il fatto che le donne avevano più frequentemente una polimedicazione e ricevevano più frequentemente medicamenti inappropriati, soprattutto sedativi come per esempio le benzodiazepine. Numerosi studi dimostrano che esiste una disparità di genere nella diagnostica e trattamento di determinate malattie. Per esempio i farmaci psicotropi e analgesici sono prescritti molto frequentemente alle donne. Questa osservazione può essere messa in relazione con il fatto che le donne consultano più frequentemente i medici manifestando sintomi che possono indurre i medici alla prescrizione dei medicamenti citati. Riassumendo questo studio mostra che i problemi di prescrizione dei medicamenti sono frequenti nelle persone anziane che vivono con HIV e non si limitano ai problemi ben noti di interazione medicamentosa con i farmaci antiretrovirali. Occorre quindi prestare particolare attenzione all’appropriatezza della prescrizione di farmaci nei pazienti anziani. |
18 agosto | Kovari et al., Farmaci antiretrovirali e calcificazioni delle arterie coronarie | |
Diversi farmaci antiretrovirali sono stati associati in studi clinici a malattia coronarica, ossia restringimento e calcificazione della parete delle coronarie che preludono a un infarto miocardico. I risultati degli studi condotti negli ultimi anni danno però risultati contradditori. In questo studio, realizzato nell’ambito dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS), una coronarografia è stata fatta in 403 partecipanti di età superiore ai 45 anni. Durante l’esame le arterie coronarie sono rappresentate con l’aiuto di un mezzo di contrasto in modo tale che i restringimenti causati da depositi (placche) e le calcificazioni, possono essere evidenziati. Esistono diversi tipi di depositi: placche calcificate, miste e non calcificate. Quest’ultimi sono i più pericolosi perché si tratta di depositi instabili che possono frantumarsi e condurre a un’occlusione di un’arteria coronaria con conseguente infarto miocardico. In questo studio si è potuto fare una distinzione tra placche calcificate e non calcificate/miste. Tramite un’analisi statistica si è ricercata l’associazione tra i farmaci antiretrovirali usati più frequentemente e i depositi nelle coronarie. Depositi nelle coronarie sono stati trovati in circa la metà dei pazienti (47%). Dei 403 partecipanti il 38% aveva dei depositi calcificati e 37% dei depositi non calcificati/misti. È stata trovata una correlazione tra l’utilizzo dell’abacavir (farmaco antiretrovirale inibitore della trascrittasi inversa) e i depositi non calcificati/misti. Questo risultato conferma precedenti studi che hanno mostrato l’associazione tra abacavir e infarto del miocardio. Abacavir deve quindi essere usato con prudenza nelle persone che hanno un’infezione HIV e solo dopo un’attenta valutazione dei rischi e benefici. |
28 luglio | Raffenberg et al., Effetto del ritardo nell’iniziare una terapia antiretrovirale durante la prima fase di un’infezione da HIV sulla lunghezza dei telomeri | |
Al giorno d’oggi le persone che vivono con l’HIV hanno all’incirca la stessa speranza di vita di coloro che non hanno l’infezione. Ciò è principalmente dovuto al continuo sviluppo di nuovi medicamenti contro l’HIV che compongono la terapia antiretrovirale (ART). Ciò nonostante le persone con HIV potrebbero soffrire maggiormente di malattie correlate all’invecchiamento come l’ictus, il diabete mellito, l’osteoporosi e la malattia coronarica. Il processo di invecchiamento del corpo umano è dovuto alla perdita di funzionalità dei processi di riparazione del materiale genetico cellulare (DNA). Alcune proteine dell’organismo sono incaricate di riparare il DNA per evitare lo sviluppo di cellule difettose e quindi di malattie. Ma ci sono anche altri sistemi di protezione come i telomeri che si trovano nelle estremità del DNA contenuto nei cromosomi. È interessante notare che i telomeri si accorciano in modo naturale nel corso della vita. È stato ipotizzato che, nel caso in cui i telomeri si accorciano più rapidamente della media, si possa instaurare un ritmo di invecchiamento cellulare più rapido della media. L’accorciamento dei telomeri potrebbe quindi favorire o provocare delle malattie legate all’invecchiamento. Si sa che i telomeri delle persone che vivono con HIV sono più corti di quelli delle persone senza infezione HIV. Parallelamente si sospetta che nelle persone con HIV potrebbe esserci una relazione tra telomeri più corti e l’apparizione più precoce di malattie legate all’invecchiamento (come la malattia coronarica). Il fatto che i telomeri siano più corti nelle persone con HIV potrebbe essere legato alla forte attivazione del sistema di difesa immunitaria dell’organismo. In particolare, nella fase più precoce dell’infezione HIV, il sistema immunitario è molto attivo e molte sostanze infiammatorie circolano nell’organismo come reazione allo “stress” sul sistema immunitario causato dalla nuova infezione HIV. Sembra che i telomeri si accorcino in modo più rapido nel corso dei primi 1-2 anni dopo l’infezione primaria da HIV. Lo studio attuale ha indagato se esiste una differenza nella lunghezza dei telomeri nei casi in cui i pazienti hanno cominciato molto precocemente un trattamento ART. L’inizio precoce della ART potrebbe ridurre l’attivazione immunitaria e quindi proteggere gli individui contro la perdita nella lunghezza dei telomeri (vedi parte introduttiva). Lo studio è stato condotto su 105 pazienti dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) con un’infezione molto recente (infezione primaria). La diagnosi è stata fatta poche settimane dopo l’infezione da HIV. Tutti i pazienti hanno anche partecipato ad uno studio dell’ospedale universitario di Zurigo, che concerne l’infezione primaria da HIV (ZPHI). La lunghezza dei telomeri è stata misurata più volte durante 6 anni in tutti i partecipanti allo studio. In media i pazienti hanno cominciato il trattamento antiretrovirale 6 settimane dopo il contagio da HIV. Successivamente i pazienti sono stati suddivisi in 3 gruppi, in base al momento in cui è stata iniziata la ART, ossia dopo un intervallo breve, medio o più lungo dal contagio. Più precisamente, i dati per i 3 gruppi indicano che il trattamento antiretrovirale è stato cominciato in media 25 giorni, 42 giorni o 60 giorni dopo la diagnosi di HIV. Lo studio ha prodotto diversi risultati interessanti: i telomeri erano già più corti nei due gruppi che hanno iniziato la terapia “solo” dopo 42 e 60 giorni dalla diagnosi, rispetto al gruppo di pazienti che ha iniziato il trattamento dopo 25 giorni. Inoltre, 6 anni più tardi, i pazienti che avevano atteso meno a lungo prima di iniziare una ART, avevano ancora dei telomeri più lunghi (nel confronto con il 2/3 di pazienti che avevano cominciato il trattamento più tardi). Se la ART era stata interrotta nel frattempo (ciò che avveniva con una certa frequenza all’inizio degli anni 2000) l’effetto benefico di un inizio precoce della ART sulla lunghezza dei telomeri non era più osservato. Qual è l’ampiezza dell’effetto sfavorevole sui telomeri quando si attende più a lungo prima di cominciare una ART? Secondo il giudizio degli autori questo effetto è importante. Più precisamente, i telomeri dei due gruppi che hanno cominciato la ART dopo 42 e 60 giorni erano, rispettivamente, una media di 17% e 22% più corti nei 6 anni successivi nel confronto con il gruppo di pazienti trattati dopo 25 giorni. Questo effetto era all’incirca due volte più importante rispetto all’effetto naturale dell’invecchiamento sulla lunghezza dei telomeri (raccorciamento di 8,2% dei telomeri dopo 10 anni di invecchiamento). Con altre parole, il fatto di iniziare una ART qualche settimana più tardi nel corso dell’infezione primaria da HIV, sembra “invecchiare” l’organismo due volte di più di quanto accade nel corso di 10 anni di vita. Questi risultati erano ancora presenti anche quando gli autori hanno considerato altri fattori che influenzano la lunghezza dei telomeri come il fumo, il consumo di alcool, i parametri immunologici, la carica virale, l’infezione concomitante da virus dell’epatite C, da Cytomegalovirus, ecc. Uno dei limiti dello studio è l’inclusione solamente di uomini bianchi per cui occorre essere cauti nel generalizzare i risultati alle donne e alle persone di un’altra etnia. Riassumendo, i risultati dello studio suggeriscono che l’infezione primaria da HIV dovrebbe essere diagnosticata il più presto possibile dopo il contagio. La terapia antiretrovirale, se iniziata rapidamente durante l’infezione primaria, potrebbe ridurre o prevenire la perdita accelerata della lunghezza dei telomeri nelle prime settimane dopo l’infezione da HIV. Sì può ipotizzare che l’inizio precoce di una ART, grazie all’effetto benefico sui telomeri, potrebbe ugualmente ridurre gli effetti negativi dell’HIV sull’invecchiamento dell’organismo e sulle malattie associate, quali la malattia coronarica e l’osteoporosi. | ||
1 luglio | Sculier et al., Efficacia e sicurezza della combinazione dolutegravir + emtricitabina per il trattamento di mantenimento dell’HIV comparata con le combinazioni antiretrovirali standard | |
La semplificazione del trattamento nelle persone che vivono con HIV è oggetto di studio da molti anni. La semplificazione comprende la diminuzione del numero e/o della dose dei farmaci antiretrovirali come pure la semplificazione dei controlli medici pur mantenendo l’efficacia, la sicurezza, l’aderenza al trattamento e la medesima qualità di vita delle persone trattate. Dolutegravir (DTG) è un medicamento molto efficace per il trattamento dell’infezione da HIV. Causa pochi effetti collaterali e poche interazioni con altri farmaci. Questo profilo farmacologico favorevole permette di utilizzare DTG con un'altra molecola in biterapia, sia in coloro che iniziano un nuovo trattamento antiretrovirale, sia in coloro che hanno già una viremia ben controllata sotto terapia di mantenimento. Nello Studio SIMPL’HIV i ricercatori hanno valutato nell’ambito dello Studio svizzero della coorte HIV, la biterapia DTG con emtricitabina (FTC) come alternativa alla triterapia di mantenimento standard. Hanno pure valutato la semplificazione dei controlli medici diminuendo il numero di prelievi di sangue. Inoltre, i partecipanti potevano scegliere tra far consegnare i farmaci ad un indirizzo di loro scelta, fare i prelievi di sangue presso un medico al di fuori del Centro di riferimento per lo studio ed essere seguiti al telefono o tramite videochiamata. Questo studio randomizzato e fattoriale ha incluso 188 partecipanti con una viremia controllata sotto triterapia standard indipendentemente dal tasso dei linfociti CD4+. I partecipanti hanno ricevuto una terapia semplificata di DTG + FTC, oppure hanno continuato il trattamento già in corso. Hanno beneficiato di controlli medici semplificati, come descritto sopra, oppure continuato i controlli medici come in precedenza. La combinazione DTG + FTC si è dimostrata altrettanto efficace (93,5%) delle combinazioni terapeutiche standard (94,7%) nel mantenere la viremia indetettabile durante tutta la durata dello studio, ossia 48 settimane, anche in coloro con un tasso più basso di linfociti CD4+. È stata quindi confermata la non inferiorità della biterapia DTG + FTC in confronto alle triterapie standard. Gli effetti collaterali erano poco frequenti ed equivalenti in entrambi i gruppi dello studio. I ricercatori hanno osservato dei cosiddetti “blip” (valore misurabile della viremia HIV a basso livello in un unico prelievo di sangue, non confermato ad un secondo controllo) indipendentemente dal trattamento, sia in caso di biterapia che sotto triterapia standard, e ciò senza conseguenze per il paziente. La qualità di vita, già stimata come molto soddisfacente all’inizio dello studio, è ulteriormente migliorata per i pazienti sotto biterapia DTG + FTC. In conclusione i risultati dello Studio SIMPL’HIV confermano l’efficacia e la sicurezza della biterapia basta su DTG per semplificare il trattamento nei pazienti che hanno una viremia indetettabile. La combinazione DTG + FTC aumenta l’offerta delle biterapie già disponibili. |
31 maggio | Wan et al., Ereditabilità della dimensione del serbatoio HIV-1 e modifica sotto terapia soppressiva a lungo termine | |
La terapia antiretrovirale riduce in modo sostanziale la mortalità e la morbilità causate dall’HIV, ma per ottenere questo risultato dev’essere assunta a vita. In effetti tale terapia, pur inibendo efficacemente la replicazione dell’HIV, non conduce a un’eliminazione del virus. Una parte della popolazione virale forma ciò che viene denominato serbatoio HIV, all’interno del quale il virus non si moltiplica, ma può sopravvivere per molti anni, eventualmente decenni, indipendentemente dalla terapia antiretrovirale. Se il trattamento antiretrovirale è interrotto, la moltiplicazione dell’HIV e quindi la progressione della malattia riprendono a partire da questo serbatoio. Il serbatoio di HIV è quindi l’ostacolo maggiore sulla via di una terapia definitiva dell’HIV. Per questa ragione sono stati studiati molti approcci differenti per eliminare il serbatoio o impedirne l’attivazione, finora però con un successo limitato. La ricerca attuale è stata condotta nell’ambito dello Studio denominato HIV-X che analizza la dimensione e la dinamica a lungo termine del serbatoio di HIV sotto terapia antiretrovirale presso oltre 1'000 pazienti dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS). Si tratta della più grande popolazione in cui sono stati esaminati i fattori che influenzano la dimensione e la dinamica del serbatoio. In base all’analisi del materiale genetico dell’HIV (genoma virale) nei pazienti dello studio, si è potuto dimostrare che quest’ultimo ha un’influenza importante sulla dimensione del serbatoio di HIV e spiega all’incirca 20% della sua variabilità. Questi risultati suggeriscono che il ceppo di HIV che causa l’infezione contribuisce alla dimensione del serbatoio di HIV negli individui infetti e questo risultato dovrebbe essere preso in seria considerazione nell’ambito degli sforzi futuri per guarire l’infezione da HIV. Inoltre, il presente studio rappresenta il punto di partenza della ricerca sui meccanismi con cui il genoma virale influenza la dimensione del serbatoio, ciò che a sua volta darà nuovi stimoli alla ricerca sulla guarigione dell’infezione HIV. |
21 aprile | Surial et al., Aumento di peso dopo il passaggio da tenofovir disoproxil a tenofovir alafenamide | |
Il medicamento tenofovir è una componente importante nelle terapie combinate per l’HIV in considerazione della sua eccellente efficacia e tolleranza. La formulazione tenofovir disoproxil fumarato (TDF), in passato largamente utilizzata, è stata associata ad una malattia renale (denominata tubulopatia renale prossimale) e allo sviluppo di un’osteoporosi. La formulazione più recente, tenofovir alafenamide (TAF), non provoca questi effetti secondari problematici. Di conseguenza in molte persone che vivono con l’HIV il trattamento è stato modificato con passaggio da TDF a TAF. Studi precedenti condotti in persone che hanno iniziato una terapia anti-HIV con TAF avevano mostrato che TAF poteva essere associato a un aumento del peso e a un aumento del tasso di lipidi nel sangue più importante rispetto al TDF. L’attuale studio SHCS ha esaminato 3'484 persone in cui si è passati da un trattamento anti-HIV con TDF a un trattamento con TAF e hanno comparato l’evoluzione del peso con quella di 891 persone che hanno mantenuto il loro trattamento con TDF. Dopo 18 mesi le persone che sono passate da TDF a TAF hanno visto un aumento più importante del peso (1,7 kg) rispetto a coloro che hanno mantenuto il TDF (0,7 kg). Questo effetto è stato osservato in tutti i sottogruppi dello studio ed era presente indipendentemente dalle altre componenti della terapia anti-HIV. Tra coloro che prima del passaggio da TDF a TAF avevano un peso normale, 13,8% hanno sviluppato un sovrappeso o un’obesità sotto TAF contro 8,4% di coloro che hanno proseguito con TDF. Nel medesimo lasso di tempo si è constatato un aumento del tasso di lipidi sanguigni nei partecipanti allo studio che sono passati da TDF a TAF. Dato che il periodo dello studio era relativamente breve non è stato possibile rispondere in modo definitivo alla domanda se i cambiamenti metabolici potevano anche essere associati ad un rischio aumentato di sviluppare un diabete mellito. Questo studio mostra che occorre essere attenti al problema dell’aumento ponderale e dei cambiamenti metabolici che accompagnano il passaggio a una terapia con TAF. Al posto di una modifica incondizionata della terapia da TDF a TAF per i vantaggi relativi a una migliore tolleranza renale e minor rischio di osteoporosi, occorre mettere sulla bilancia gli inconvenienti di un eventuale aumento di peso e di un aumento del tasso di lipidi sanguigni nell’ambito di una consultazione personalizzata. In futuro sarà necessario studiare i meccanismi esatti che inducono questi cambiamenti metabolici e i loro eventuali effetti sulla manifestazione di un diabete o di un infarto miocardico. Oggi giorno risulta indispensabile poter offrire alle persone che vivono con HIV un trattamento efficace con il minor rischio possibile di effetti negativi a lungo termine. |
3 febbraio | Kusejko et al., Interazione complessa tra tubercolosi e HIV | |
In caso di multiple malattie infettive concomitanti ci sono sempre interazioni tra le une e le altre. Ciò accade anche nelle persone con infezione HIV: se sussiste un’infezione concomitante con Mycobacterium tuberculosis (MTB), l’agente della tubercolosi, i pazienti sono in grado di controllare meglio l’HIV e le infezioni opportunistiche sono meno frequenti. I ricercatori e le ricercatrici dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno potuto dimostrare per la prima volta questa interazione. Circa il 30% delle persone nel mondo hanno avuto un’esposizione al MTB nel corso della vita. Malgrado ciò, nella maggior parte delle persone infette la tubercolosi non si manifesterà mai. Si parla di un’infezione “dormiente” o, in termine tecnico, di una tubercolosi latente. È risaputo che un’infezione incontrollata da HIV rappresenta uno dei fattori più importanti per lo sviluppo di una tubercolosi clinicamente manifesta. Per contro l’effetto di una tubercolosi latente sull’evoluzione dell’infezione HIV è meno ben caratterizzato. I ricercatori della SHCS hanno studiato questi aspetti in modo più approfondito. I partecipanti alla SHCS sono stati suddivisi in tre gruppi in base all’esito del test della tubercolosi: All’incirca 14’000 pazienti sono stati sottoposti ad un test per MTB documentato nella banca dati della SHCS. 840 (6%) di loro avevano un’infezione latente e 770 (5,5%) hanno sviluppato un’infezione attiva da MTB. Un’analisi statistica ha permesso di studiare la relazione tra infezione da MTB e viremia HIV. È stato possibile dimostrare che le persone sieropositive senza trattamento antiretrovirale e con una tubercolosi latente avevano una viremia HIV inferiore a quella dei pazienti sieropositivi senza tubercolosi latente. Inoltre i pazienti con una tubercolosi latente avevano una probabilità inferiore di soffrire di infezioni opportunistiche quali la candidosi orale o la leucoplachia orale vegetante (alterazione della lingua causata dal virus Epstein-Barr). I risultati di questo studio mostrano fino a che punto l’interazione tra due malattie infettive può essere complessa. L’interazione immunologica tra un’infezione e un’altra indipendente dalla prima è chiamata immunità eterologa, un fenomeno che attualmente è oggetto di ricerca nel mondo intero. Lo studio mostra che le persone sieropositive con una tubercolosi latente hanno una viremia HIV più bassa e meno infezioni opportunistiche. Una tubercolosi latente potrebbe quindi rappresentare un fattore protettivo contro altre infezioni. In un prossimo futuro i ricercatori e le ricercatrici cercheranno di utilizzare lo stimolo del sistema immunitario mediato dai micobatteri a scopo terapeutico, ad esempio per migliorare la risposta ai vaccini o per influenzare il serbatoio latente nelle persone sieropositive – il maggiore ostacolo alla guarigione. |