2018
12 dicembre | Ryom et al., Inibitori della proteasi HIV e il loro influsso sulle malattie cardiovascolari | |
I primi inibitori della proteasi HIV sono arrivati sul mercato nella metà degli anni ’90. Assumendoli in combinazione con altre sostanze anti-HIV le persone sieropositive hanno per la prima volta ricevuto un trattamento efficace. Studi precedenti hanno mostrato che gli inibitori della proteasi associati al booster ritonavir erano associati ad un rischio aumentato di malattie cardiovascolari. Fino ad ora non era chiaro se tale rischio era anche aumentato con gli inibitori della proteasi di nuova generazione. Questi ultimi sono stati utilizzati molto frequentemente in associazione al ritonavir durante gli ultimi dieci anni. Lo studio attuale ha mostrato che l’utilizzo cumulativo dell’inibitore della proteasi darunavir (Prezista®) era associato ad un rischio aumentato di malattie cardiovascolari. Di seguito potrete scoprire se tale rischio sussiste anche con altri inibitori della proteasi. Gli autori di questa ricerca hanno raccolto in una banca dati tutti gli studi disponibili che analizzano la relazione tra malattie cardiovascolari e assunzione di inibitori della proteasi. La ricerca copre il periodo in cui sono stati commercializzati gli inibitori della proteasi fino a metà agosto 2016. La ricerca ha dato i seguenti risultati: in un periodo di osservazione di sette anni, 1157/35'711 partecipanti (3.2%) hanno presentato una malattia cardiovascolare (infarto miocardico o ictus cerebrale). L’assunzione simultanea dell’inibitore della proteasi darunavir con il booster ritonavir aumentava il rischio di una malattia cardiovascolare del 59% per un periodo di trattamento di cinque anni. Per le persone a rischio elevato di malattia cardiovascolare (rischio > 10%), il rischio raddoppiava sotto trattamento con darunavir/ritonavir. Per contro questo rischio non sussisteva con l’inibitore della proteasi atazanavir (Reyataz®). Le analisi statistiche hanno mostrato che il rischio aumentato di malattie cardiovascolari sotto darunavir/ritonavir non era causato da un influsso negativo del farmaco sul profilo lipidico nel sangue. Riassumendo, questo studio mostra che l’assunzione di darunavir/ritonavir è associata ad un rischio aumentato di malattie cardiovascolari. Questo rischio è più pronunciato nelle persone con rischio cardiovascolare elevato (alto tasso di lipidi nel sangue, fumo, ipertensione, diabete). Alla luce di questi risultati la prescrizione di trattamenti con darunavir/ritonavir non dovrebbe essere preconizzata nelle persone che hanno un rischio elevato di manifestare malattie cardiovascolari. Nel caso di persone già trattate con la suddetta combinazione e che hanno avuto degli eventi cardiovascolari, occorre valutare la possibilità di una modifica del trattamento rinunciando al darunavir. Commento del Dr. med. D. Braun e Prof. Dr. med. H. Günthard, SHCS |
8 novembre | Kouyos et al., “L’impronta digitale” degli anticorpi anti-HIV-1 | |
Poche persone con infezione da HIV-1 sviluppa degli anticorpi detti “neutralizzanti a largo spettro” (bnAbs), che sono indirizzati contro determinate strutture virali (antigeni) e che sono capaci di neutralizzare differenti varianti del virus. I fattori che determinano se una persona sviluppa o meno dei bnAbs non sono conosciuti. Ci sono pure pochi dati sul contributo di caratteristiche del virus implicate nello sviluppo degli anticorpi neutralizzanti. Per poter sviluppare un vaccino sarebbe utile identificare le caratteristiche del virus responsabili della risposta immunitaria neutralizzante a largo spettro. Gli autori dello studio hanno analizzato la risposta degli anticorpi di un gran numero di coppie in cui vi era stata una trasmissione dell’HIV e che partecipano allo studio svizzero della coorte HIV (SHCS). Hanno scoperto che le caratteristiche dell’HIV-1 sono in parte responsabili dell’ampiezza dello spettro e della potenza della risposta con anticorpi neutralizzanti. Gli autori hanno ipotizzato che, qualora i fattori virali fossero determinanti nella qualità della reazione anticorpale, le persone infettate da ceppi virali molto simili tra di loro, avrebbero sviluppato una reazione di neutralizzazione simile. Per testare questa ipotesi hanno identificato 303 coppie di persone tra i quali è avvenuta la trasmissione dell’HIV e ciò grazie alla similitudine dei ceppi virali. In seguito hanno testato l’efficacia della reazione degli anticorpi nel neutralizzare 14 differenti ceppi di virus bloccando 13 antigeni. Gli autori parlano di “un’impronta digitale” del virus all’origine dell’infezione. Effettivamente le coppie in cui era verosimilmente avvenuta la trasmissione dell’HIV avevano un’impronta digitale degli anticorpi a differenza delle coppie di pazienti selezionati casualmente. Più precisamente il virus all’origine dell’infezione determina 13.25% dell’impronta digitale neutralizzante e ciò conferma il ruolo del virus nella potenza neutralizzante degli anticorpi. Anche tenendo conto dei fattori che influenzano lo sviluppo dei bnAbs, come la durata dell’infezione ed il sottotipo dell’HIV-1, la correlazione tra virus all’origine dell’infezione ed impronta digitale della neutralizzazione resta verosimile. Malgrado la reazione tra la genetica del virus e la neutralizzazione era statisticamente molto significativa, l’effetto globale era piuttosto debole, paragonabile all’effetto della genetica del virus sulla diminuzione del tasso di linfociti T aiutanti nel caso di un’infezione HIV senza terapia antiretrovirale. A sorpresa i ricercatori hanno trovato una coppia con trasmissione dell’HIV in cui entrambi i pazienti hanno sviluppato una forte risposta degli anticorpi neutralizzanti a largo spettro (“élite neutralizers”) con una modalità praticamente identica: gli anticorpi di entrambi hanno potuto neutralizzare tutti i 42 ceppi HIV-1 del test. Questo caso dimostra l’esistenza di proteine sulla superfice del virus che sono capaci di stimolare la produzione di bnAbs. Ciò corrisponde esattamente alle necessità per lo sviluppo di un vaccino efficace. In previsione dello sviluppo di un vaccino contro l’HIV, i ricercatori esamineranno in dettaglio la proteina di superfice del virus isolato in questi cosiddetti “élite neutralizers”. Riassumendo, questo studio mostra che le differenze nella genetica dell’HIV-1 hanno un’influenza significativa nello sviluppo di una risposta degli anticorpi e che alcuni ceppi di virus conducono ad una risposta immunitaria neutralizzante a largo spettro indipendentemente dalle caratteristiche dell’individuo infetto. Un’impronta bnAbs molto forte è probabilmente rara, ciò non di meno i ceppi virali e gli antigeni che determinano questo effetto rappresentano il punto di partenza per lo sviluppo di un vaccino. |
26 settembre | Kusejko et al., Cause dell’epidemia HIV negli MSM che partecipano alla SHCS | |
Gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (MSM) rappresentano in Svizzera il principale gruppo a rischio per la trasmissione dell’HIV. Per poter controllare questa epidemia è importante conoscere l’efficacia delle misure di prevenzione mirata. I ricercatori dello studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno sviluppato un modello matematico che aiuta a comprendere quali misure di prevenzione sono decisive per contenere l’epidemia HIV. Hanno scoperto che nel lungo termine il modo migliore per affrontare l’epidemia negli MSM è da una parte l’introduzione della profilassi pre-esposizione (PrEP) negli MSM sieronegativi e dall’altra l’incremento del numero di test HIV con inizio immediato della terapia nelle persone con nuova diagnosi dell’infezione. I ricercatori della SHCS hanno simulato con un modello matematico l’epidemia HIV dal 2001 al 2015 e hanno tenuto conto dei seguenti fattori: intervallo tra contagio e diagnosi; numero di infezioni diagnosticate e quelle trattate in modo efficace; stadio dell’infezione HIV (tasso dei linfociti T aiutanti); utilizzo dei preservativi in caso di rapporti sessuali occasionali. Secondo il modello 3-4% dei contagi hanno potuto essere evitati grazie ad un inizio precoce di una terapia antiretrovirale. L’utilizzo dei preservativi in caso di rapporti sessuali occasionali ha evitato solamente 0.6% dei contagi. Questa cifra relativamente bassa è dovuta al fatto che nel modello soprattutto gli MSM sotto trattamento anti-HIV efficace avevano dei rapporti sessuali non protetti e di conseguenza non potevano trasmettere l’HIV. Secondo il modello la maggior parte delle infezioni sono state trasmesse da MSM che si trovavano in una fase precoce dell’infezione HIV. I nuovi contagi avrebbero potuto diminuire di oltre il 10% raddoppiando il tasso di nuove diagnosi di HIV. L’introduzione della PrEP nella metà degli MSM che hanno dei partner occasionali avrebbe diminuito il tasso di nuove infezioni HIV del 22%. Riassumendo, questo studio mostra che in Svizzera la maggioranza delle infezioni negli MSM è trasmessa da persone nella fase precoce dell’infezione HIV. Un aumento del tasso dei test HIV e l’inizio immediato di una terapia HIV nelle persone con nuova diagnosi (“test & treat”) conducono ad una forte diminuzione dei nuovi contagi. L’introduzione della PrEP negli MSM sieronegativi con un comportamento a rischio ha un’influenza decisiva sull’epidemia HIV. Il risultato dello studio permette di concludere che una PrEP facilmente accessibile e test HIV sistematici negli MSM con un comportamento a rischio, saranno decisi per mettere fine all’epidemia HIV in questo gruppo a rischio. |
22 agosto | Braun et al., Il depistaggio sistematico negli MSM della SHCS permette di scoprire un numero elevato di casi recenti di epatite C | |
A livello mondiale il numero di uomini HIV positivi che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM) e che si infettano con il virus dell’epatite C (HCV) è in aumento. I casi di infezione da HCV sono aumentati in Svizzera di un fattore 20 a partire dal 2008. Queste osservazioni sono state fatte nell’ambito dello studio svizzero della coorte HIV (SHCS). I partecipanti allo studio di coorte sono sottoposti ad un test dell’epatite C una volta all’anno (ricerca di anticorpi). Di seguito forniremo informazioni più dettagliate sul numero di MSM nel SHCS che sono stati infettati dal virus dell’epatite C negli anni trascorsi, indicando i fattori di rischio dell’infezione. Nel contesto di questo studio i ricercatori del SHCS hanno inizialmente sottoposto in modo sistematico all’incirca 4000 MSM con infezione HIV partecipanti al SHCS ad un test di depistaggio molecolare dell’epatite C (detezione diretta del virus tramite RNA). Hanno scoperto 177 casi di epatite C. Ciò significa che il 5% degli MSM del SHCS sono infettati dall’HCV. Tra di loro 31 partecipanti hanno contratto l’infezione nel corso dell’anno precedente («nuove infezioni da HCV») e fino al momento del test molecolare l’infezione HCV non era stata diagnosticata. Le altre persone erano affette da un’epatite C cronica diagnosticata già da tempo. I ricercatori hanno anche testato i campioni di sangue dei partecipanti al SHCS con un’infezione da HCV di recente diagnosi ricercando gli anticorpi dell’epatite C. Come già detto questo test era utilizzato in modo sistematico per diagnosticare l’epatite C nei partecipanti del SHCS. In un terzo dei casi il test di ricerca degli anticorpi era negativo malgrado il test molecolare si fosse rivelato positivo. In un secondo tempo i ricercatori hanno determinato i fattori di rischio dell’infezione da HCV. Hanno constatato che gli uomini che in passato avevano consumato delle droghe per via endovenosa o per altra via avevano più frequentemente un’infezione da HCV rispetto a coloro che non avevano consumato droghe. Ulteriori fattori di rischio erano rapporti sessuali non protetti con partner occasionali, una diagnosi di sifilide precedente e valori epatici elevati negli esami del sangue. Riassumendo questo studio ha stabilito per la prima volta il numero di MSM partecipanti al SHCS contagiati dal virus dell’epatite C e ciò grazie a test sistematici presso tutti gli MSM ricercando in particolare il genoma (RNA) del virus. Un gran numero di infezioni diagnosticate erano recenti. Lo studio ha anche dimostrato che esiste un rischio di diagnosi tardiva delle infezioni recenti poiché il test di depistaggio classico (anticorpi) era negativo in un terzo dei casi. Queste infezioni non sarebbero probabilmente state diagnosticate in persone che non partecipano allo studio SHCS poiché uno screening annuale non è richiesto in modo sistematico. Nel caso le persone infette non vengano diagnosticate per tempo come portatrici dell’epatite C, si potrebbero avverare nuove trasmissioni del virus. I ricercatori hanno concluso che in futuro occorrerà fare un test molecolare (HCV RNA) presso gli MSM con fattori di rischio e ciò al posto del test classico di ricerca degli anticorpi. Inoltre consigliano di iniziare immediatamente una terapia specifica in caso di diagnosi di epatite C negli MSM con comportamento sessuale a rischio in modo da evitare nuove trasmissioni dell’infezione. |
5 luglio | Tarr et al., Alterazioni delle arterie coronariche nelle persone con infezione HIV e in quelle sieronegative in Svizzera | |
Le persone con infezione HIV hanno un rischio più elevato di malattie cardiovascolari rispetto alla popolazione generale. Non è chiaro se questo rischio sia dovuto ad alterazioni delle arterie coronariche, più frequenti nelle persone sieropositive, che favoriscono l’apparizione di malattie cardiovascolari come l’infarto miocardico. Gli autori di questo studio hanno analizzato, con l’aiuto di una nuova tecnologia tomografica, la relazione tra infezione HIV e alterazione delle arterie coronariche. Hanno constatato che le persone sieropositive incluse nello studio non erano affette da alterazioni coronariche più frequentemente delle persone sane. Questo risultato è sorprendente e troverete la spiegazione nei paragrafi seguenti. Studi precedenti hanno mostrato che le persone sieropositive soffrono più frequentemente di malattie cardiovascolari e di eventi cerebrovascolari. Si suppone che i vasi di questi pazienti sono più spesso affetti da restringimenti e calcificazioni, ciò che potrebbe condurre più rapidamente all’apparizione di malattie cardiovascolari. I ricercatori dello studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno esaminato nell’ambito di un grande studio denominato “Metabolism and ageing (M&A)” le arterie coronarie di 428 persone sieropositive con l’aiuto di una tecnologia tomografica moderna. Questo esame è stato eseguito in parallelo su 276 persone sieronegative per poter comparare i due gruppi. Malgrado il fatto che le persone sieropositive erano leggermente più giovani rispetto i soggetti sani, il loro profilo di rischio per le malattie cardiovascolari era identico. La valutazione delle tomografie nei due gruppi ha mostrato alterazioni delle arterie coronarie identiche nei due gruppi (sieropositivi: 53%, sieronegativi: 56%). Inoltre non vi era nessuna differenza nella quantità di calcificazioni delle arterie coronariche. Gli autori hanno pure constatato, dopo correzioni delle misure sulla base di numerosi fattori, che la quantità di calcificazioni delle arterie coronariche era inferiore nelle persone sieropositive. Per contro un tasso di linfociti T aiutanti (CD4+) basso nelle persone sieropositive era associato a maggiori alterazioni delle arterie coronariche. Riassumendo, questo studio mostra che alterazioni delle arterie coronariche nelle persone sieropositive non sono più frequenti rispetto alla popolazione generale. Al contrario, sulla base di modelli statistici, le persone sieropositive presentavano meno frequentemente rispetto a quelle sieronegative arteriosclerosi e calcificazioni delle arterie coronariche. Inoltre i risultati dello studio non fanno supporre che le arterie coronarie invecchino più rapidamente nelle persone sieropositive. Lo studio attuale ha quindi condotto a conclusioni differenti rispetto a studi precedenti che avevano constatato alterazioni spesso importanti delle arterie coronarie nelle persone con infezione HIV. Un miglior stato di salute dei partecipanti allo studio attuale, una percentuale inferiore di fumatori e un miglior trattamento dell’infezione HIV nell’ambito della SHCS, potrebbero spiegare le differenze tra lo studio attuale e le pubblicazioni precedenti. |
13 giugno | Strouvelle et al., Influenza dell’interferone-α sulla riserva latente del virus HIV-1 | |
Oggi sono disponibili dei buoni trattamenti contro l’infezione HIV, ma non è ancora possibile guarire a causa dei cosiddetti serbatoi dell’HIV nel corpo. Questi serbatoi sono dei luoghi nell’organismo dove il virus riesce a nascondersi malgrado i test eseguiti nel sangue mostrino una viremia HIV indetettabile. Ricercatrici e ricercatori dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno analizzato se l’interferone-α, prescritto per molti anni per trattare l’epatite C, fosse in grado di ridurre i serbatoi di latenza dell’HIV. Il risultato è stato piuttosto deludente: anche dopo un trattamento di molti mesi, i serbatoi di latenza dell’HIV erano invariati. Un’altra scoperta è però risultata promettente. I ricercatori del SHCS hanno misurato per questo studio i serbatoi di latenza dell’HIV partendo da cellule del sistema immunitario di 40 pazienti con una co-infezione HIV-epatite C. La misurazione dei serbatoi di latenza è stata effettuata partendo da campioni di sangue congelati di pazienti che partecipano alla SHCS. Inoltre praticamente tutti i campioni di sangue esaminati provenivano da pazienti che erano stati in precedenza trattati con interferone-α e ribavirina per un’epatite C. Inoltre, dato che solo pochi pazienti avevano già iniziato una terapia anti-HIV poco dopo il contagio, nella maggioranza dei casi il primo trattamento anti-HIV è stato prescritto in uno stadio avanzato (stadio cronico) dell’infezione HIV. Gli autori di questo studio hanno studiato l’influenza di una terapia con interferone-α sui serbatori di latenza dell’HIV e verificato se il momento dell’inizio della terapia anti-HIV aveva un’influenza sui serbatoi di latenza. I risultati sono da considerare promettenti poiché hanno mostrato che i serbatoi dell’HIV erano nettamente più bassi nelle persone che avevano cominciato una terapia anti-HIV precocemente in paragone alle persone che avevano iniziato una terapia anti-HIV solo in uno stadio più avanzato. Per contro la terapia per l’epatite C con interferone-α non ha influenzato in modo significativo i serbatoi di latenza dell’HIV. I ricercatori hanno addirittura osservato un aumento dei serbatoi di latenza sotto terapia con interferone-α. In conclusione l’inizio precoce di una terapia anti-HIV diminuisce in modo sostanziale i serbatoi di latenza dell’HIV. I pazienti che hanno ricevuto una terapia in uno stadio precoce dell’infezione HIV avranno forse in futuro una possibilità più elevata di poter eradicare l’infezione con trattamenti sperimentali per indurre una guarigione completa dall’HIV. I ricercatori sono a questo proposito unanimi: più i serbatoi di latenza dell’HIV sono bassi, più aumenta la possibilità che un futuro trattamento per indurre una guarigione possa a tutti gli effetti eradicare l’HIV. Questo studio del SHCS da anche una chiara indicazione che l’interferone-α avrà poco spazio nei futuri studi per ottenere una guarigione dall’HIV, da una parte per l’inefficacia dell’interferone nel ridurre i serbatoi di latenza dell’HIV e dall’altra a causa degli importanti effetti avversi dell’interferone. |
24 maggio | Bartha et al., Influenza dei fattori ereditari dell’HIV sulla progressione dell’infezione HIV | |
L’infezione HIV nelle persone che non sono sottoposte ad una terapia antiretrovirale evolve in modo differente. Ciò si manifesta ad esempio nella durata tra il momento del contagio e la manifestazione dei sintomi dell’AIDS che, nelle persone sieropositive senza trattamento, varia da 2 a 20 anni. La viremia (quantità di HIV nel sangue) misurata un mese dopo il contagio è un parametro che permette di valutare la velocità con la quale l’HIV evolverà. Questo parametro è stato denominato set point della viremia. Più il set point è elevato, più aumenta il rischio di una progressione rapida dell’infezione HIV. Gli autori del presente studio hanno studiato i fattori che influenzano il set point della viremia. Essi hanno constatato che i fattori ereditari legati al virus hanno un impatto molto più importante sul set point della viremia rispetto ai fattori ereditari della persona contagiata. La stima dell’importanza dell’influenza di fattori ereditari dell’HIV sul livello del set point della viremia varia nella letteratura specializzata tra 6 e 59%. Per una stima più precisa gli autori di questo studio hanno analizzato i dati di 2000 pazienti con infezione HIV in cinque paesi europei. A differenza degli studi precedenti, i partecipanti avevano contratto l’infezione HIV più recentemente, ossia erano sieropositivi da 6-24 mesi. Con l’aiuto di un modello matematico e di una tecnica specifica di laboratorio, gli autori hanno esaminato l’influenza dei fattori ereditari dell’HIV sul set point della viremia analizzando la globalità dei fattori ereditari dell’HIV. Con l’aiuto di questo modello i ricercatori hanno calcolato che il livello del set point della viremia è determinato in misura del 30% dai fattori ereditari dell’HIV con una variabilità tra 15 e 43%. Gli altri fattori che influenzano il set point della viremia sono i fattori ereditari della persona (“fattore dell’ospite”), la variabilità della risposta immunitaria delle persone dopo il contagio da HIV ed eventuali errori di misurazione. Riassumendo questo studio della coorte europea ha mostrato che i fattori ereditari dell’HIV determinano nella misura di circa il 30% il set point della viremia. Lo studio ha parimenti mostrato che saranno necessarie ulteriori analisi per determinare l’impatto dei fattori ereditari sul set point della viremia prendendo anche in considerazione gli errori di misurazione. | ||
16 maggio | Kamal et al., Attitudine delle persone con infezione HIV rispetto alla co-medicazione | |
La maggioranza delle persone sieropositive assume i medicamenti per l’HIV in modo coscienzioso e con una buona aderenza terapeutica. Ma qual’è l’aderenza terapeutica rispetto i medicamenti concomitanti (co-medicazione), come ad esempio i medicamenti per l’ipertensione arteriosa, il diabete o il colesterolo? Per rispondere a questa domanda i ricercatori dello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS) hanno interrogato i pazienti sull’importanza che attribuiscono alla co-medicazione in confronto ai farmaci per l’HIV. I ricercatori hanno scoperto che le persone sieropositive considerano la co-medicazione come meno importante e di conseguenza la tralasciano più frequentemente rispetto ai farmaci per l’HIV. Per determinare l’importanza che le persone sieropositive attribuiscono alla co-medicazione e quale sia l’aderenza terapeutica nei confronti di tali medicamenti, i ricercatori hanno analizzato 109 questionari concepiti in modo specifico per questo studio e compilati da pazienti che partecipano alla SHCS. La maggioranza dei pazienti erano uomini con età media di 56 anni. 83% dei partecipanti ha indicato di assumere regolarmente i farmaci per l’HIV e il 71% ha assunto regolarmente la co-medicazione. L’analisi statistica ha potuto dimostrare che l’assunzione di farmaci non destinati al trattamento dell’infezione HIV era significativamente meno regolare rispetto i farmaci destinati all’infezione HIV. Inoltre i partecipanti ammettono che i farmaci per l’HIV sono considerati più importanti e che i pazienti sono meno preoccupati di eventuali effetti avversi rispetto a quelli potenzialmente associati alla co-medicazione. Le persone con un modesto livello di formazione erano più convinti rispetto alle persone con un livello di formazione superiore che l’assunzione della co-medicazione fosse importante. Sorprendentemente le persone con un tasso di linfociti T aiutanti (CD4+) elevati consideravano più importante la co-medicazione rispetto alle persone con un tasso basso di linfociti T aiutanti. Riassumendo lo studio mostra che le persone sieropositive danno più importanza all’assunzione regolare dei farmaci per l’HIV rispetto alla co-medicazione. È dunque importante che i medici non parlino con i loro pazienti esclusivamente dell’aderenza terapeutica concernente i farmaci per l’HIV ma anche della loro preoccupazione e potenziale intolleranza alla co-medicazione. Considerando che le persone sieropositive hanno un rischio più elevato di malattie cardiovascolari rispetto alla popolazione in generale, l’assunzione regolare della co-medicazione (ad esempio farmaci per l’ipertensione o anticoagulanti) ha un’importanza maggiore nel mantenere un buono stato di salute. |
11 aprile | Borges et al., I medicamenti anti-HIV e il rischio di fratture ossee | |
Alcuni medicamenti per l’HIV hanno un influsso negativo sul metabolismo delle ossa. Non è ancora chiaro se questo problema possa favorire le fratture ossee. Ricercatori di vari studi di coorte HIV europei si sono chinati sulla questione e hanno studiato i fattori che correlano con fratture ossee ed osteonecrosi nelle persone sieropositive. Lo studio ha mostrato che, tra tutti i medicamenti anti-HIV, solamente il tenofovir disoproxil fumarato (TDF) aumenta il rischio di fratture ossee. Riassumiamo al seguito le indicazioni fornite dallo studio. 11'820 persone sono state incluse nello studio ed osservate durante un periodo totale cumulativo di 86'118 anni. L’età media dei partecipanti era di 41 anni, 2/3 erano maschi, il valore medio dei linfociti CD4+ era di 440 cellule/µl e il 70% delle persone aveva una viremia HIV soppressa. Tra i partecipanti dello studio i ricercatori hanno trovato 610 fratture e 89 casi di osteonecrosi. I fattori associati ad un rischio più elevato di fratture erano: un’età avanzata, il sottopeso, un consumo di droghe per via endovenosa, un tasso basso di linfociti CD4+, una co-infezione da epatite C, un’osteonecrosi o una frattura nel passato, malattie cardiovascolari e una diagnosi recente di cancro. I partecipanti allo studio sotto trattamento con tenofovir disoproxil fumarato (TDF) avevamo un rischio di frattura 50% più elevato rispetto alle persone senza TDF. Inoltre il rischio di fratture era leggermente aumentato se una persona era stata sottoposta in passato ad una terapia con TDF. Gli altri medicamenti anti-HIV non aumentavano il rischio di fratture o di osteonecrosi. Riassumendo lo studio mostra che le modifiche del metabolismo osseo nelle persone sieropositive favoriscono le fratture e l’osteonecrosi. I fattori di rischio per le fratture sono molteplici e comprendono fattori genetici, fattori legati all’HIV e ad altre comorbidità. Considerando che il TDF aumenta il rischio di fratture nelle persone sieropositive, occorre essere prudenti nella prescrizione di tale sostanza. Si raccomanda di modificare il trattamento a vantaggio del farmaco di generazione successiva, il tenofovir alafenamide fumarato (TAF) perché sino ad ora gli effetti avversi associati al TDF non sono stati descritti sotto TAF. Di conseguenza i medici che seguono pazienti sotto Truvada® devono prendere in considerazione la possibilità di un cambiamento su Descovy®. |
14 marzo | Elzi et al., Effetti avversi degli inibitori dell’integrasi dolutegravir e raltegravir | |
Le raccomandazioni internazionali consigliano come terapia iniziale per le persone con HIV una combinazione con inibitore dell’integrasi. Dolutegravir e raltegravir sono gli inibitori dell’integrasi prescritti più frequentemente grazie alla loro efficacia e buona tolleranza. Negli ultimi due anni, differenti studi hanno riportato degli effetti avversi che coinvolgono il sistema nervoso centrale, più frequentemente con il farmaco dolutegravir. Gli autori del presente studio hanno analizzato gli effetti avversi e la percentuale di interruzione di dolutegravir paragonato con raltegravir nello Studio svizzero della coorte HIV (SHCS). La loro conclusione: effetti collaterali sotto dolutegravir o raltegravir sono molto rari. Gli effetti collaterali concernenti il sistema nervoso centrale erano solo leggermente più frequenti con dolutegravir rispetto a raltegravir. In questo studio sono stati analizzati i dati di 4'041 pazienti del SHCS. 2'901 erano sotto un trattamento per l’HIV con raltegravir e 1'950 con dolutegravir. Il tasso di interruzione della terapia nel primo anno dopo l’inizio del trattamento era di 15 per 100 anni-paziente. Con altre parole su 100 pazienti che assumono la terapia per un anno, la terapia per l’HIV ha dovuto essere modificata in 15 persone. Per entrambi gli inibitori dell’integrasi un fallimento virologico era molto raro e riguardava solo 10 pazienti sotto raltegravir (0.5%) e 2 pazienti sotto dolutegravir (0.1%). I motivi più frequenti di un cambio di terapia nel corso del primo anno di trattamento per l’HIV con inbitore dell’ingrasi erano il desiderio del paziente di cambiare la terapia, la raccomandazione del medico curante e una semplificazione del trattamento. Gli effetti avversi dei due medicamenti erano rari e concernevano 4.3% dei pazienti sotto raltegravir e 3.6% dei pazienti sotto dolutegravir. Un cambiamento di terapia dovuto agli effetti avversi era nettamente più frequente nelle donne rispetto agli uomini. Gli effetti collaterali concernenti il sistema nervoso centrale si sono manifestati due volte più spesso sotto dolutegravir in paragone al raltegravir. In cifra assoluta, la differenza del numero di effetti avversi tra i due farmaci è minima e riguarda solamente 33 pazienti sotto dolutegravir (1.7%) e 13 pazienti sotto raltegravir (0.6%). Il rischio di dover modificare la terapia a causa degli effetti collaterali sul sistema nervoso centrale era due volte più elevato con dolutegravir rispetto a raltegravir. Riassumendo, in oltre 4000 partecipanti al SHCS si è potuto osservare una grande efficacia dei due inibitori dell’integrasi dolutegravir e raltegravir. Gli effetti avversi concernenti il sistema nervoso centrale erano più frequenti con dolutegravir rispetto a raltegravir, ma nell’insieme il tasso di effetti collaterali è molto basso. Ciò non di meno è importante informare i pazienti sotto terapia con inibitori dell’integrasi dei possibili effetti avversi sul sistema nervoso centrale e il medico curante dovrebbe porre delle domande specifiche su tali effetti avversi. Se sotto trattamento con dolutegravir si manifestano effetti avversi sul sistema nervoso centrale è ragionevole cambiare su un altro inibitore dell’integrasi. |
22 gennaio | Béguelin et al., Aumento dei trattamenti e del tasso di guarigione dell’epatite C nei partecipanti allo SHCS 2011-2015 | |
I medicamenti anti-HCV (virus dell’epatite C), i cosiddetti agenti antivirali ad azione diretta (AAD), sono estremamente efficaci, ben tollerati e disponibili in Svizzera dal novembre 2011. Vi presentiamo i dati di uno studio che concerne il tasso di trattamento e il successo della terapia anti-HCV nei partecipanti al SHCS con epatite C. Il risultato più importante scaturito dallo studio è che il numero di pazienti trattati è quintuplicato e che il 96% delle persone sottoposte a terapia con la nuova generazione di AAD è guarita dall’epatite C. Fino a metà del 2011 il trattamento per l’epatite C’era composto dalla combinazione di interferone peghilato e ribavirina. Questo trattamento aveva un tasso di successo mediocre e provocava molti effetti avversi. I primi medicamenti anti-HCV altamente efficaci (AAD) sono apparsi sul mercato nel 2011. La loro efficacia è nettamente più elevata rispetto ai vecchi trattamenti e provocano meno effetti avversi. La seconda generazione di AAD è disponibile dal 2014: non provocano di regola effetti avversi e il trattamento dura generalmente tre mesi con un tasso di guarigione molto elevato. Gli autori dello studio attuale hanno analizzato tre periodi: Nello studio in questione è stato constatato che il tasso di trattamento anti-HCV è costantemente aumentato dal primo al terzo periodo, addirittura si è quintuplicato. In parallelo il tasso di guarigione dopo trattamento è praticamente raddoppiato, dal 54% nel periodo 1 al 96% dopo l’introduzione dei trattamenti di seconda generazione. 876 partecipanti alla SHCS erano affetti da un’epatite C all’inizio del periodo 3. Tra costoro il 20% ha iniziato un trattamento con AAD altamente efficaci di seconda generazione. Ben ¾ dei soggetti era affetto da una fibrosi epatica di stadio avanzato. Malgrado ciò 96% dei pazienti sono guariti dall’infezione. Solo 4 pazienti non sono guariti dall’epatite C malgrado il trattamento. Riassumendo lo studio mostra che il tasso di trattamento dell’epatite C’è fortemente aumentato dopo l’arrivo sul mercato svizzero dei nuovi AAD. Con la nuova classe di farmaci, praticamente tutti i pazienti trattati sono guariti. Inoltre i risultati mostrano che le persone con una coinfezione HIV/HCV hanno la stessa probabilità di guarigione rispetto alle persone con monoinfezione da HCV. A causa del costo molto elevato dei nuovi AAD, al momento dell’arrivo sul mercato, le casse malati non assumevano i costi del trattamento per pazienti che non avevano già segni di danno al fegato. Dal 1° ottobre 2017 tutti i pazienti con epatite C in Svizzera possono però essere trattati con i nuovi AAD indipendentemente da eventuali lesioni al fegato o altri fattori. Le importanti barriere per il trattamento dell’epatite C sono quindi state tolte e l’eradicazione dell’HCV in Svizzera è diventato un obiettivo realistico. |